Lo scorso
14 dicembre abbiamo avuto modo di osservare due volti ben diversi del
nostro Paese: l’uno è quello rappresentato dai parlamentari, che hanno
votato la fiducia al Governo Berlusconi, mantenendo in vita così un
Esecutivo delegittimato a livello europeo ed internazionale; l’altro è
rappresentato dagli studenti, liceali ed universitari, che sono scesi
in piazza per contestare la Riforma Gelmini, che nei giorni successivi
a quella data sarebbe stata, poi, approvata definitivamente dai due
rami del Parlamento.
Due Italie, quindi, ben lontane l’una dall’altra, anche se entrambe
espressione della medesima crisi, sia valoriale che economico-politica.
La conclamata compravendita di deputati, che ha consentito al Governo
di superare un momento delicato, non ci inquieta oltremodo: il
trasformismo – e le perverse logiche sottese – è sempre stato
l’elemento fondante della prassi politica, a partire dai primissimi
Parlamenti dell’Italia sabauda. Peraltro, il voto di fiducia del 14
dicembre non ha, certamente, risolto i problemi strutturali che minano
la saldezza dell’odierna maggioranza: probabilmente, il redde rationem
per il Governo Berlusconi è stato semplicemente rinviato ai primi mesi
del 2011 o, al più, alla prossima primavera, quando l’Esecutivo dovrà
assumere decisioni tanto gravi, quanto essenziali in materia di finanza
pubblica - chiedendo un ulteriore sacrificio agli Italiani - e non
potrà farlo con i ristretti numeri attuali.
Ben più drammatico è il volto dell’altra Italia, quello costituito
dagli studenti che, negli ultimi mesi, hanno contestato la Riforma
Gelmini, che ha messo mano al riordino dell’istruzione secondaria ed
universitaria.
Quei giovani rappresentano un punto di domanda inquietante per gli
adulti – di Destra, di Centro e di Sinistra – che aspirano a governare
l'Italia: sono l’immagine plastica di una parte rilevante del nostro
Paese, che avverte tragicamente il senso di un futuro precario e che,
perciò, contesta un’intera classe dirigente, che appare inadeguata e
cinicamente sorda alle sue reiterate grida di aiuto.
L’Italia, a partire dall’immediato secondo dopoguerra, ha realizzato un
notevole avanzamento in termini di civiltà, oltre che di crescita
economica: tale sviluppo ha riguardato soprattutto i ceti sociali, di
volta in volta, emergenti ed ha contribuito a ridimensionare molto gli
spazi di povertà e le forti iniquità, che erano evidenti nei primi
decenni del XX secolo.
Negli ultimi venti anni, una simile condizione è venuta
progressivamente scemando, perché, anche per effetto
dell’internazionalizzazione del Capitalismo, la forza-lavoro europea ha
perso potere contrattuale ed il divario con le classi forti si è
notevolmente ampliato: la concomitante crisi della finanza pubblica
impedisce, tuttora, agli Stati di finanziare quelle politiche atte a
garantire la sopravvivenza ai ceti che vengono espulsi dal processo
produttivo e che, quindi, sono bruscamente esclusi dall’accesso alla
ricchezza e ai servizi non gratuiti.
Nel corso di questi ultimi due decenni (coincidenti, più o meno, con
gli anni della cosiddetta II Repubblica), le ricette anti-crisi della
Destra e della Sinistra, purtroppo, si sono somigliate tantissimo:
nessuno può dimenticare come la normativa, in materia di lavoro
interinale e a tempo determinato, sia stata introdotta dai Governi di
Centro-Sinistra alla fine degli anni ’90. Molti esponenti di rilievo di
quelle maggioranze parlamentari esaltavano la precarizzazione del
rapporto di lavoro dipendente, descrivendola come un’opportunità e non
come una minaccia per gli standard di benessere raggiunti,
precedentemente, dall’Italia.
Finanche le organizzazioni sindacali, ad esclusione della C.G.I.L.,
hanno sostenuto simili scelte politiche, non avvertendo i pericoli che,
da queste, sarebbero derivate.
Oggi, a distanza di qualche anno dall’introduzione di quella
legislazione, si avvertono pesantemente i segni di una crisi, che non
risparmia neanche il ceto medio, che ha vissuto, per diversi decenni,
in una condizione di benessere e di agi.
Ad avvertire la crisi più tragicamente degli altri sono i giovani, per
i quali la prospettiva di vita non è affatto allettante: se ci sarà, il
lavoro per loro non potrà che essere precario, malpagato e con
scarsissime garanzie. Di fatto, il sistema economico europeo sta
ripercorrendo una strada inversa a quella percorsa dagli inizi
dell’Ottocento, riportando la manodopera europea (anche quella
intellettuale e non solamente quella operaia) alle condizioni di vita
non dissimili da quelle successive ai tempi della prima
industrializzazione.
Il diritto fondamentale dei giovani, che viene nell’immediato leso, è
quello alla formazione e all’istruzione.
Riduzione degli indirizzi di scuola secondaria; peggioramento
dell’offerta formativa; chiusura di Atenei; maggiori costi per
l'acquisto dei libri, di cui non viene più garantita la gratuità per
quanti frequentano la scuola dell’obbligo; eliminazione delle borse di
studio per i meritevoli ed i bisognosi, sostituite da prestiti erogati
dallo Stato, sono provvedimenti che vanno, tutti, nella medesima
direzione: minano la crescita democratica dell’Italia e fanno paventare
un futuro molto meno roseo di un presente già triste.
In un quadro simile, segnato dalla recessione, è opportuno che quelle
forze politiche, deputate per vocazione alla difesa degli interessi dei
più deboli, diano un segnale di forza, elaborando idee, leadership ed
una nuova soggettività politica: altrimenti, sarà un’altra Destra, più
autoritaria di quella attuale, a guidare il dissenso sociale e a trarre
vantaggi dall’implosione di una classe dirigente centrista - come
quella odierna - adatta, forse, a governare il Paese in tempi di vacche
grasse, ma priva di una cultura e di una progettualità idonee ad
affrontare momenti economicamente non felici.
Rosario Pesce - scuole24ore.it