Continuiamo il
discorso
iniziato qualche settimana fa sui giovani e sull’educazione. Vale la
pena,
infatti, insistere su una crisi culturale ed educativa che assume oggi
proporzioni molto ampie. Si assiste, così, ad una parcellizzazione del
sapere e
ad un affrancamento delle discipline dal Mistero e dal significato
totale. Nel
sistema culturale moderno, nel paradigma culturale relativistico
dominante, ogni
pezzo del puzzle è percepito come slegato dal disegno complessivo da
costruire.
Nel mondo della scuola, ad
esempio, spesso, gli insegnanti si pongono come informatori che
forniscono
delle nozioni, ma si disinteressano totalmente del compito educativo,
che
richiede il legame tra il particolare presentato e il tutto, ovvero il
suo
significato. Fornire ai ragazzi più pezzi del puzzle non servirà loro a
capire
maggiormente la realtà, nel caso in cui manchi l’immagine da
ricostruire.
Nell’epoca contemporanea ci sono più nozioni, più discipline rispetto
al
Medioevo, ma non si dispone del disegno da ricomporre, anzi in molti
ambiti si
nega che questo esista. Paradossalmente in questa situazione l’aumento
delle
informazioni potrebbe creare sempre più
confusione, come se in una stanza aumentasse il numero degli oggetti,
ma non si
disponessero in ordine o non crescesse lo spazio in cui disporli.
Quando
offriamo ad un bimbo o ad un ragazzo i pezzi di un puzzle, se
desideriamo che
lui possa utilmente sfruttarli, dobbiamo anche offrirgli l’immagine da
ricostruire.
Nel panorama mass mediatico,
invece, i giovani hanno davanti a sé molti idoli, che mostrano se
stessi, non
la verità e la bellezza, come risposta al cuore dell’uomo. Gli idoli
non sono
compagnia nel cammino dell’esistenza. Se lo fossero, mostrerebbero
tutta la
loro inconsistenza. Gli idoli sembrano affascinare per la loro presunta
autonomia, per l’autosufficienza, come se fossero in grado di darsi la
felicità
da soli. L’uomo autentico, il giovane come l’adulto, percepisce che non
ha
bisogno di idoli, ma di maestri.
Solo apparentemente questo
modello umano di divo idolatrato, non impegnato con il reale, in
apparenza solare, che non sente il peso
della vita e
delle difficoltà, si contrappone alla cultura intellettuale che ha
caratterizzato il secolo ventesimo. La leggerezza dell’io è l’altra
faccia
della medaglia dell’insostenibile pesantezza di una realtà percepita
come
assurda e inconoscibile, carcere tetro e ragnatela che impedisce di
evadere. La
leggerezza dell’essere è conseguenza dell’incapacità a reggere un
rapporto vero
con la realtà, che è diventata insopportabile, una volta che si è fatto
fuori
il Mistero, il Creatore, il Destino, una volta che si è soli e che ci
si
percepisce da soli. L’uomo leggero, così come è veicolato dai mass
media, non
comunica davvero, non si mette in relazione con gli altri, è autonomo,
non
ammette responsabilità, non si prende cura degli altri, ma solo di se
stesso. O
così almeno crede.
Se è difficile o addirittura
impossibile sostenere l’uomo e la sua speranza, allora è preferibile
scordarsi
dell’uomo e della sua domanda. Infatti, una volta persa la chiave di
accesso al
reale, questo non è più affrontabile. Quando non si guarda più in
profondità la
realtà con lo stupore del bambino, quando la realtà non è più segno di
Altro e
possibilità di inoltrarsi in un senso, allora l’unica possibilità è
escludere
il reale ed evadere in un mondo che non ha problemi. Crediamo che sia
questa
una delle possibili interpretazioni del desiderio della cultura
contemporanea
di non sottostare al reale, ma di creare col pensiero (l’esito è
l’ideologia) o
di evadere in mondi virtuali e immaginari.
Per questo oggi sempre più è
necessaria la presenza di maestri. Il maestro, colui che guida e che è
autorevole,
non rimanda mai a sé come risposta ai problemi della vita, ma comunica
altro,
indirizza al bene e conquista gli altri proprio perché non avvinghia a
sé. Il
maestro sprona al «desiderio del mare aperto», non si sofferma sulla
noia del
particolare slegato dal desiderio di navigare. Come descrive bene
questo
atteggiamento Antoine de Saint Exupery nella Cittadella quando scrive:
«Se vuoi
costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i
compiti
e impartire ordini. Ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e
infinito».
Se si togliesse la brama del
navigare, per quale motivo si dovrebbe faticare a tagliare la legna? E
ancora,
come si può educare qualcuno intimorendolo, facendo pensare che nella
vita
bisogna avere soltanto paura? Che cosa possiamo dare a noi stessi, ai
nostri
figli, ai nostri studenti, alle persone cui vogliamo bene se non il
bello e il
vero che incontriamo? I divi idolatrati, invece, presentano sé come la
soluzione. Nella Cittadella compare ancora la figura del capo che
istruisce i
generali spronandoli ad essere pienamente uomini mantenendo vivo il
desiderio.
Confessa loro: «La torre, la roccaforte o l’impero crescono come
l’albero. Esse
sono manifestazioni della vita in quanto è necessario che ci sia l’uomo
perché
nascano. E l’uomo crede di calcolare. Crede che la ragione governi
l’erezione
delle sue pietre, quando invece la costruzione con quelle pietre è nata
dapprima dal suo desiderio. La roccaforte è racchiusa in lui,
nell’immagine che
porta nel cuore, come l’albero è racchiuso nel seme. I suoi calcoli non
fanno
altro che dare forma al suo desiderio e
illustrarlo. […] Voi perderete la guerra perché non desiderate nulla».
Sono parole profetiche quelle
di A. de Saint Exupery, che nel contempo indicano un punto da cui
ripartire,
per i giovani come per gli adulti: il desiderio infinito del cuore.
Questa è la
strada per vincere la sfida educativa.
di Giovanni Fighera – Bussola Quotidiana 21-02-2011