Mio figlio Tommy nacque quando io non c’ero. Era il 1998, l’anno in cui Annalisa Minetti vinse Sanremo anche senza vedere. Io facevo il Dopofestival con Chiambretti, Busi e Nino d’ Angelo. L’annuncio del lieto evento in tv lo fece Piero, dal palco del Festival, dicendo per sfottermi: «Somiglierà a Busi!». Mi andò bene, perché crescendo diventò bello come un angelo, se non fosse che era autistico.La diagnosi di autismo ai miei tempi arrivava centellinata in decine di valutazioni, osservazioni, test e chiacchiere inutili con dottori, dottoresse, psicologhe, educatori, che facevano domande a lui che stava zitto. Il tema era in quale parte di un universo, che già allora capivo molto poco conosciuto alle nostre latitudini, Tommy dovesse essere collocato.L’incertezza è già speranza e quindi in famiglia arrancammo ancora qualche anno, confidando che avevamo un figlio strano, ma non certamente autistico. Venivamo rassicurati di valutazione in valutazione: «Autistico? Che brutta parola… Ma li ha visti gli autistici? Non si accorge che lui anche se non parla guarda negli occhi?». Così ci trastullavamo con l’idea benevola che avevamo un figlio che galleggiava da qualche parte dello «spettro autistico», che prima o poi sarebbe diventato quasi normale, al massimo qualche problemino di relazione… «Ma chi non ne ha?». E con la logopedia avrebbe anche iniziato a parlare, l’importante era crederci. Passai così una decina d’ anni con l’ idea che avrei avuto un figlio taciturno e molto selettivo nei suoi contatti personali. Tommy alla fine era un bambino non troppo diverso da quei loquacissimi sfantumatori, al cui servizio perenne vedevo molti miei amici e amiche. Anzi, se devo essere sincero, a parte qualche fissa alimentare, qualche sua stramberia cui non facevamo nemmeno più caso, ci eravamo abituati tutti a quel bambino che si esprimeva con un vocabolario base di dieci parole, incomprensibili a chiunque non fosse di famiglia. Avevamo imparato a stare attenti a non lasciare in giro oggetti che poteva mettersi in bocca, a sigillare ogni fonte di pericolo da taglio, da fiamma e da elettricità, a mettere le serrature alle finestre, perché non gli venisse la tentazione di fare come Peter Pan. Ci eravamo pure rassegnati a tagli drastici alla nostra vita sociale: molti amici con figli coetanei si sono gradualmente dileguati, forse temendo un contagio o forse solamente perché quando i loro figli già leggevano Harry Potter in inglese il nostro sì e no riusciva a dire il suo nome e un abbozzo fonetico che somigliasse al cognome.Mai ci siamo lamentati, anzi quel balzano figliolo era il nostro oracolo, straordinario rivelatore di umanità latente nel nostro prossimo. Poi Tommy è cresciuto, anche tanto, ora è un gigante riccioluto a cui arrivo appena alle spalle. Il primo attacco epilettico è arrivato assieme alla sua sfavillante adolescenza. «C’è di peggio!», abbiamo pensato, mentre imparavamo a reggergli la testa. Poi è cresciuto ancora e la sua esuberanza a volte può far male a chi gli sta vicino.Porto addosso i segni delle sue mani e dei suoi denti, ne vado fiero come ferite di guerra, l’importante è che ancora io ce la faccia a contenerlo quando gli prende brutta. La moglie ha abdicato da un anno; ha ragione. Non può farcela, dopo che si è trovata a terra con una costola incrinata, solo perché Tommy le voleva dare una carezza un po’ manesca. La madre lo teme, anche se lo ama da morire, perché è sempre il suo bambino, pure le volte che si mette a saltare e trema il pavimento. Ancora ce la facciamo e siamo fortunati, perché possiamo permetterci qualcuno che ci aiuti ad accudirlo. Un autistico non può essere lasciato solo nemmeno un minuto… Anche se nell’età adulta nemmeno si potrebbe più dire che è autistico, perché per lo Stato diventa un «matto generico». Ormai la mia giornata la passo con Tommy accanto, anche ora quando scrivo. Non c’è altra soluzione, non c’è nulla a misura di un autistico cresciuto e ho deciso che me lo inventerò io. Per questo ho scritto un libro per i tanti genitori rassegnati. Perché a me mio figlio sta bene anche così. Vorrei solo potermi «inventare» per lui una vita felice, sono convinto che sia possibile, basta crederci.
Gianluca Nicoletti
da La Stampa.it del 13/02/2013