Alcuni giorni
fa si è tenuta alla Kennedy School of Government di Harvard una tavola
rotonda dedicata al problema della crescente disuguaglianza sociale ed
economica, evidente in tutto il mondo e particolarmente negli Stati
Uniti. I partecipanti (quasi tutti economisti) sono stati concordi nel
denunciare la serietà della situazione ma non hanno offerto soluzioni,
ostacolati dall’obbligo di dimostrarsi “realisti”, ossia di accettare
la mentalità della gente e gli attuali rapporti di forza come fatti
incontrovertibili e sostanzialmente immodificabili. “Se magicamente
potessimo…” è la formula da loro usata, più volte, per introdurre con
cautela (e di fatto delegittimandole) le poche proposte innovative.
Oltre che un sintomo dell’egemonia dei paradigmi conservatori, la loro
mancanza di coraggio e di idee mi è parsa una chiara conferma del
bisogno di cercare altrove gli strumenti pratici e i fondamenti teorici
per tornare, oggi, a fare politica, liberandoci dal doppio ricatto
delle leggi di mercato (ossia dell’ossessione per il profitto della
grande finanza) e delle paure sociali (immigrazione, terrorismo,
criminalità). Questo “altrove” è la cultura, non intesa però
esclusivamente come patrimonio di opere o conoscenze ereditate dal
passato bensì come esigenza creativa, come impulso a fare (sia la
parola poesia che arte derivano etimologicamente da parole che
indicavano la capacità di produrre). È questo il problema affrontato da
Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco, entrambi docenti alla IULM di
Milano: per salvare il mondo
dall’economia serve cultura; ma come salvare la cultura da sé
stessa? Troppo spesso la cultura è infatti solo un dispositivo per
definire una identità individuale e collettiva, ossia per dirci chi
siamo e da dove veniamo. Un caso emblematico sono le città d’arte:
bloccate in uno stadio storicamente casuale del loro sviluppo, quasi
avessero raggiunto una perfezione non superabile e non alterabile. Non
c’è dubbio che la difesa di uno spazio carico di memoria e di storia
sia un segno di civiltà, e che il patrimonio architettonico e
urbanistico vada protetto dalle speculazioni delle grandi corporation,
capaci di leggere il territorio solo in termini di valore immobiliare e
direttamente interessate a indebolire le comunità locali – ultimo
argine in grado di resistere al loro potere dopo l’abdicazione degli
Stati. Lo sradicamento sociale genera un consumismo ossessivo, poiché
se nulla può essere conservato o tramandato l’unica realtà e l’unica
felicità possibili sono quelle, effimere, delle merci e dei prodotti di
moda. È tuttavia errato, credere che la museificazione delle città,
degli oggetti o delle idee sia una strategia efficace. Dietro tale
pratica, scrivono Caliandro e Sacco, “c’è la pia illusione che una
società, la quale non sia più in grado di produrre e accogliere nuova
cultura, sappia conservare e tramandare la cultura che già esiste”. È
un punto fondamentale. Ci sono state più discussioni sul nuovo museo
dell’Ara Pacis realizzato a Roma da Richard Meier – la prima opera di
architettura contemporanea realizzata nel centro storico dalla fine del
fascismo – che sulla cementificazione di tutto ciò che circonda quel
centro storico, come se la storia o l’estetica riguardassero solo
alcune aree designate. L’edificio di Meier può piacere o non piacere ma
è un atto culturale: che induce giudizi, riflessioni, coscienza, in
altre parole desiderio di approfondire, di intervenire, di dare senso
alla propria esperienza. L’opposto di ciò che troppo spesso accade a
chi va a visitare un museo: distrattamente e passivamente, sollecitato
più che altro dal bisogno di documentare la propria presenza in quel
luogo e attratto infatti, più che dalle opere esposte nelle sale
(davanti alle quali i turisti si fermano di media meno di un secondo),
dalle loro riproduzioni vendute dello shop. È un fenomeno di cui pochi
anni fa si è occupato uno storico dell’arte contemporanea, Francesco
Antinucci, in un libro che proponeva un uso virtuoso delle tecnologie
virtuali (ben diverso da quello comunemente praticato) proprio per
correggere la caduta verticale della comprensione della cultura, lo
svuotamento della sua funzione privata e sociale. È un rischio che
corrono anche le università: a dare ai propri utenti solo ciò che si
aspettano, si innesca un circolo vizioso in cui la conoscenza, invece
che un processo di superamento della propria condizione, diventa un
rassicurante dispositivo di auto-conferma, in cui i cambiamenti che
comunque avvengono (fanno parte dell’inesorabile legge della vita) sono
tutti subìti, mai scelti. Per continuare con il caso delle città
d’arte, non è vero che esse non mutino: solo che mutano “in modo da
incorporare e fare propri gli stereotipi che li riguardano”. Diventano
insomma simili alle descrizioni che di loro offrono le guide, non
viceversa. Italia reloaded spiega anche le ragioni per cui la società
ha bisogno di una cultura proattiva, ed è in fondo la questione con cui
ho aperto questa recensione: “la cultura e la creatività sono palestre
naturali di preinnovazione”. È un’altra ottima intuizione: non è
ragionevole aspettarsi che siano esse a salvare il mondo; chi le carica
di questo compito inclina pericolosamente verso una sorta di misticismo
culturale. Le soluzioni concrete spettano alla scienza, alla
tecnologia, agli Stati. E tuttavia nessuna soluzione è possibile senza
che sia stato preventivamente creato un ambiente in qualche modo aperto
al cambiamento. Tale funzione preparatoria è propria dell’arte,
dell’immaginazione, della fiction. Della cultura: indice del tasso di
innovazione di una società e insieme palestra o laboratorio in cui
imparare a innovare e innovarsi.
Il libro Italia reloaded. Ripartire con la cultura di Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco è edito dalla casa editrice Il Mulino, 2011, pp. 146, costo euro 13,50
Harvard Diary - Italica - Rai.it
Il libro Italia reloaded. Ripartire con la cultura di Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco è edito dalla casa editrice Il Mulino, 2011, pp. 146, costo euro 13,50
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