Al Presidente del Senato della Repubblica On. le Maria Elisabetta
Alberti Casellati
Onorevole Presidente,
Ci rivolgiamo a Lei convinti che sia necessario non tralasciare alcuna
occasione per motivare adeguatamente la
nostra convinzione secondo la quale
il Parlamento italiano compirebbe un gravissimo errore - sia sul
piano strettamente giuridico, sia sotto l'aspetto dell'apprezzamento di
tutto l'impiego pubblico in generale e in particolare della
funzione dei dirigenti - se pervenisse alla definitiva
approvazione delle disposizioni inerenti alla
rilevazione biometrica delle presenze
degli impiegati pubblici previste dall'articolo 2 del disegno di
legge governativo A. Senato n. 920 -B, ora
interza lettura al Senato della
Repubblica. Come a Lei noto, tale
articolo dispone l'introduzione nella
generalità delle pubbliche amministrazioni (con
l'eccezione dei dipendenti di cui all'articolo 3 del d.lgs n. 165/2001)
di "sistemi di verifica
biometrica dell'identità e di
videosorveglianza degli accessi, in
sostituzione dei diversi sistemi di rilevazione automatica".
Ci consenta, onorevole Presidente, di esporre con l'articolazione che
meritano i motivi che rendono a nostro giudizio
la disposizione in questione gravemente inopportuna, nonché
perniciosa per la pubblica amministrazione nel suo complesso.
Innanzitutto esponiamo per punti le
questioni di rilevanza giuridica che da sole
consiglierebbero l'espunzione della norma nella sua interezza:
1. la disposizione, nella sua nuda essenzialità, delinea una forma di
controllo basata su un doppio
ordine di strumenti: la verifica biometrica e la videosorveglianza
degli accessi. C'è solo un altro luogo nel quale sono in
funzione tali modalità di verifica personale: gli
accessi aeroportuali, in virtù di
chiare e necessitate esigenze di salvaguardia
da azioni di terrorismo. L'introduzione di tali misure per il controllo
del reato di falsa
attestazione della presenza si evidenzia nella sua esagerata ed inutile sproporzione
con il comportamento, pure odioso,
già perseguito con altri mezzi dalla legge penale.
Non siamo soli ad affermare che
l'articolo in esame violi il principio della
"proporzionalità" previsto dall'articolo 52 del "trattato di Nizza",
ma lo fa in primo luogo lo stesso Presidente dell'Autorità Garante per
la protezione dei dati personali.
Nonostante l'apodittica "enunciazione di
conformità" al principio della proporzionalità
presente nell'articolo 2 del ddl in questione, meriterebbero la sua
attenzione le affermazioni contenute
nell'audizione della stessa Autorità alla
Camera dei deputati, che non possiamo che sottoscrivere: "Nonostante l'inciso inerente
il rispetto dei principi di
proporzionalità, non eccedenza e
gradualità, la norma deve
ritenersi incompatibile con
tali principi, laddove intenda -
come parrebbe dato il tenore letterale - continuare a configurare la
rilevazione biometrica - unitamente peraltro
alle videoriprese - quale
obbligatoria in ogni pubblica
amministrazione. Infatti, non può
ritenersi in alcun modo conforme al
canone di proporzionalità l'ipotizzata introduzione sistematica,
generalizzata e indifferenziata per tutte le
pubbliche amministrazioni, di sistemi di
rilevazione biometrica delle presenze, in ragione dei
vincoli posti dall'ordinamento europeo per l'invasività di tali forme
di verifica".
Ma vi è di più: come
ricordato dal Garante, la Corte di
Giustizia Europea si è già pronunciata
sul merito di questa questione con
una sentenza del 2014 nei confronti della cosiddetta
"direttiva Frattini" dell'anno 2004. Tale sentenza contiene
le seguenti stringenti argomentazioni, valide parimenti per
l'articolo del disegno di legge in esame che riteniamo giusto
riprodurre nella loro integralità: "La
violazione del principio di proporzionalità deriva dall'avere la
direttiva: 1) previsto le misure di
conservazione dei dati come
applicabili in via
indifferenziata e generalizzata"all'insieme
degli individui, dei mezzi di
comunicazione elettronica e dei
dati relativi al
traffico, senza che
venga operata alcuna
differenziazione, limitazione o eccezione in
ragione dell'obiettivo della lotta
contro i reati gravi"; 2) omesso
di prevedere alcun criterio oggettivo
che limiti l ?accesso a tali dati
per sole esigenze di accertamento di
reati "sufficientemente gravi da
giustificare una simile ingerenza". Sono
queste argomentazioni stringenti, applicabili
integralmente ai previsti sistemi di
verifica biometrica e di sorveglianza degli
accessi. Pertanto, la norma
così congegnata è passibile di
ricorso alla Corte di Giustizia
europea con sicuro esito favorevole.
2. La disposizione in discussione si
manifesta in palese contrasto con un
principio generale sancito dallo Statuto dei Lavoratori:
l'articolo 4 della legge n. 300/1970, infatti, limita l'impiego degli "impianti audiovisivi e
di altri strumenti dai quali derivi anche la
possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori"
e testualmente recita che tale modalità "non si applica ........ agli strumenti di
registrazione degli accessi e delle presenze". La legislazione
nazionale si è incamminata da circa 25anni - pur in
un percorso contrassegnato da ambiguità
e contraddizioni - verso l'obiettivo dell'omologazione dello
status lavorativo dei lavoratori pubblici e di quelli privati (sancito,
come noto, dai principi generali presenti all'articolo 2 del decreto
legislativo n. 165/2001): ebbene, la
videosorveglianza degli accessi dei
dipendenti pubblici è in stridente contrasto con tali
principi di omologazione fra regime del lavoro dei privati e dei
pubblici. Si aggiunge che le misure previste dallo Statuto dei
Lavoratori furono stabilite per tutelare la dignità dei
lavoratori stessi, che - era questa la ratio
di quel provvedimento - sarebbe irreparabilmente
compromessa da forme di controllo
invasivo totalmente sproporzionate
rispetto alla necessità
di salvaguardare la regolarità degli accessi in
servizio.
3. il livello di sproporzione fra
comportamenti sanzionabili (indubbiamente
odiosi) e previsioni di contrasto del legislatore risulta,
infine, evidenziato dal fatto che già
oggi la legislazione nazionale prevede
forme di sanzione pesantissime per
gli impiegati pubblici responsabili di
contraffazione dei sistemi di controllo
degli accessi: la recente normativa -
vedasi il d. lgs. n. 116
dell'anno 2016 che ha introdotto modifiche
all'articolo 55-quater del decreto legislativo
165 del 2001 - prevede già oggi la sospensione entro
48 ore e il conseguente
licenziamento entro 30 giorni del
dipendente responsabile di falsa
attestazione della propria presenza
e/o colto in flagrante a timbrare un cartellino di altri
colleghi. Si tratta - aggiungiamo giustamente - di misure
draconiane nei confronti di impiegati
infedeli che non meritano alcuna
giustificazione; tali misure sono già
di per sé idonee a disincentivare
fortemente tali comportamenti e ad evitare perniciose
"diffusioni" degli stessi, peraltro escluse dalla stessa
relazione al disegno di legge in
esame che individua in 77 su tre milioni e
200mila impiegati pubblici (0,0024 per cento) i casi di
violazione individuati.
4. la disposizione, infine, delinea - nel testo approvato dalla Camera
dei deputati ora all'esame del Senato - un'incomprensibile disparità di trattamento
fra i lavoratori pubblici, dal momento che sono esclusi i
docenti e il personale educativo degli istituti e scuole
di ogni ordine e grado(secondo noi
correttamente - sia chiaro - e con previsione che dovrebbe
essere ESTESA a tutti i dipendenti pubblici) dall'applicazione
delle disposizioni contenute. Fatto ancora più incomprensibile è che
vengono esclusi anche i dipendenti e dirigenti delle amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 3 del d. lgs. numero 165/2001 (Ministero
dell'Interno, Ministero degli esteri, personale penitenziario).
Risulta davvero incomprensibile la ratio di tali
differenziazioni, che delineano una pubblica amministrazione
ordinata a macchia di leopardo, dove viene esplicitamente esclusa una
parte consistente del personale pubblico dall'applicazione della norma.
Tutto l'articolo 2 del disegno di legge, in conclusione, risulta
carente di qualunque idonea
motivazione sia delle
prescrizioni in esso
contenute, che dell'ambito di attuazione nell'universo
lavorativo del pubblico impiego e, pertanto, confutabile dal
punto di vista della sua costituzionalità.
Ma il motivo che rende inaccettabile
il contenuto dell'articolo 2 del più volte citato
disegno di legge attiene a valori
intrinseci della comunità nazionale italiana,
che rischiano di essere cancellati
dalla disposizione in questione: i
pubblici impiegati vengono individuati in blocco - a dispetto
della limitatezza relativa del fenomeno
dei "furbetti" - come responsabili del malfunzionamento della pubblica
amministrazione e, quindi, del malfunzionamento dell'intero sistema
sociale ed economico che alla stessa fa riferimento. Più che un
articolo di legge è un vero e proprio atto di accusa. Si giunge ad
equiparare - nel significato
sostanziale delle misure concrete previste - il trattamento dei
dati personali dei pubblici dipendenti a quello dei terroristi
dell'ISIS. La conclusione è francamente inaccettabile e,
soprattutto, sposta l'attenzione dalle vere cause dell'inefficienza
delle pubbliche amministrazioni italiane: iperproduzione
legislativa, commistione e
cogestione fra politica,
sindacato e amministrazione, assenza
di strumenti efficaci di vigilanza
parlamentare, disordine ed anarchia nella
distribuzione delle attribuzioni istituzionali
ai vari soggetti pubblici, inefficacia
della normativa sulla valutazione
delle performance non
solo individuali ma delle
amministrazioni in quanto
tali, precarizzazione dello
status della dirigenza con
conseguente vulnus al principio dell'imparzialità e dell'esclusivo
servizio alla nazione previsto dagli articoli
97 e 98 della Costituzione. Il
Governo attuale, invece di porre attenzione su questi
nodi irrisolti, preferisce indirizzarla
sulle infrazioni - odiose, si ripete - compiute da
un'estrema minoranza di dipendenti infedeli.
L'oggettiva "stravaganza" della norma in
esame si manifesta anche nel "trattamento" che
la stessa opera - oltre che sulla generalità dei dipendenti
pubblici - più specificamente nei
confronti dei dirigenti, dipendenti
pubblici caratterizzati da un rapporto di lavoro affatto
diverso dal restante personale: per i dirigenti assurge a valore
fondamentale, non tanto e non solo la presenza in servizio, quanto una
serie di azioni - dentro e fuori la
sede di lavoro - che si concretizzano
nel perseguimento degli obiettivi assegnati. Simbolo di tale
status particolare è proprio l'orario di lavoro che NON è previsto e
regolamentato per i dirigenti pubblici,
in virtù del principio secondo il quale il dirigente
è sempre e comunque "a
disposizione dell'amministrazione" senza limiti di orario e di
festività. Si aggiunge, in tal senso, che, a differenza
di altri paesi europei, il legislatore
nazionale non ha ancora previsto alcun "diritto
alla disconnessione". Non si tratta, quindi, di un privilegio dei
dirigenti, ma di una dimensione lavorativa in base alla quale il ruolo
e l'attività del dirigente, essendo di fatto
sempre reperibile anche di notte o
nel fine settimana, non è collegato
a schemi predefiniti di presenza
nella sede di lavoro, pur rimanendo
assolutamente indiscusso l'obbligo attuale per il dirigente di
assicurare la presenza in servizio in funzione delle "esigenze della struttura cui è preposto ed
all'espletamento dell'incarico affidato alla sua responsabilità in
relazione agli obiettivi e programmi da realizzare"; e
rimane altresì fermo il principio
consolidato in sentenze della Corte costituzionale (vedasi fra le
altre n. 57 del 1997) che qualifica il "rilevante e gravoso onere
aggiuntivo rispetto al
restante personale dipendente
e non, invece, un arbitrario
privilegio, in considerazione dello
specifico ruolo di responsabilità che
tale posizione riveste nell'economia
organizzativa e funzionale dell'amministrazione
pubblica". Come autorevolmente affermato dall'ARAN,"spetta
al dirigente l'organizzazione complessiva del proprio
tempo di lavoro in modo da assicurare il completo
soddisfacimento dei compiti affidati e
degli obiettivi assegnati; non ha pertanto
alcun significato per i dirigenti il riferimento alle 36 ore come
orario di lavoro settimanale".
Il sistema invasivo sul controllo delle presenze assume, anche e
soprattutto, una posizione di contraddittorietà con la prevalente
legislazione esistente. Infatti, in linea con le
impressionanti innovazioni tecnologiche in
corso, il legislatore ha individuato
all'articolo 18 della legge n. 81/2017 (applicabile anche al lavoro
pubblico) nel "lavoro agile",
detto anche "smart working", la
nuova frontiera dei rapporti lavorativi, in cui le performance
dei singoli vengono sganciate dal
requisito della presenza nella sede di
servizio. Citando testualmente tale articolo "Le disposizioni del presente capo, allo
scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei
tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro
agile quale modalità di esecuzione
del rapporto di lavoro subordinato stabilita
mediante accordo tra le parti,
anche con forme di organizzazione
per fasi, cicli e obiettivi e senza
precisi vincoli di orario o di
luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti
tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. La
prestazione lavorativa viene eseguita, in
parte all'interno di locali aziendali e in parte
all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata
massima dell'orario di lavoro giornaliero
e settimanale, derivanti dalla legge
e dalla contrattazione collettiva". La
direttiva del Ministro della Pubblica
amministrazione del 14 giugno 2017 chiarisce anche che
"nessuna categoria o tipologia contrattuale può essere esclusa
in via preventiva" dall'applicazione dello smart working.
Che relazione ci può essere fra la
legislazione che tenta di regolare
le forme future di organizzazione tecnologica
del lavoro con misure che partono dall'assunto della presenza
del lavoratore nella sede di
servizio? Nessuna, signor Presidente! Ciò
vale per la generalità dei lavoratori
(pubblici e privati) e a maggior
ragione, visto quanto ricordato più sopra,
per i dirigenti pubblici. Non
tenere conto di questa realtà -
socio/economica/culturale prima
ancora che legislativa -
significa ricacciare l'amministrazione pubblica nel
passato, non volerla accompagnare, nei fatti e nelle
prescrizioni specifiche, nel
difficile itinerario della
gestione delle problematiche presenti e future.
Le considerazioni, che abbiamo fin qui
sviluppato e che offriamo alla Sua
equilibrata e prudente valutazione, ci spingono a
pervenire ad una sola possibile conclusione:
l'abrogazione della norma in oggetto, in un'ottica NON di
difesa di presunti "privilegi corporativi", ma di principi di
civiltà giuridica nel rispetto del lavoro di tre milioni ed oltre di
dipendenti pubblici.
Nel ringraziarLa per l'attenzione prestata, Le porgiamo i più vivi e
sinceri auguri di buon lavoro nello svolgimento
della delicatissima responsabilità istituzionale a
Lei affidata.
Giorgio Rembado - Presidente ANP