Fortemente autobiografico, il volume traccia la parabola esistenziale della stessa autrice, ne segue l’andamento, consegnando l’evoluzione di una figura femminile, le cui gesta e allegorie sono in bilico tra trasparenza e cripticità. Un percorso stra-ordinario, nel senso etimologico del termine, pur nell’ordinarietà di una vita scandita dalle lancette dell’amore.
Il logos del dettato lirico restituisce al lettore la fotografia dell’hic et nunc, consentendogli di indugiare su di una immanente quotidianità, i versi sono espressi mediante una ‘lingua delle cose’, che diviene scavo archeologico del campionario umano dei sentimenti, geografia dell’anima, recupero di un patrimonio personale che diviene a un tempo collettivo. Il senso della ricerca di se stessi conferisce una dimensione temporale e a-spaziale. La scrittura, talvolta, prende abbrivio da luoghi fisici: la “smagata e fantasmagorica” Torino, la Venezia, “carezza di visioni smerlate”, l’istantanea di Catania con la cima dell’Etna innevata e la sua pietra lavica, l’atmosfera acese della città dalle 100 campane negli anni trascorsi in collegio, la nostalgia per la natìa Raddusa, che sempre torna ad accamparsi nei ricordi, dando risalto a personaggi, luoghi e mestieri scomparsi, tipici dell’entroterra siculo, valorizzando il patrimonio paesaggistico e culturale, gli usi e i costumi etnei e della ‘bedda’ Sicilia tout court.
Il più delle volte, tuttavia, il verso non risponde a perlustrazioni di luoghi specifici quanto piuttosto agli aspetti odeporici di un ‘ulissismo’ tutto interiore. La poesia è gazza ladra di materiali umorali dal forte valore testimoniale, del dettaglio poco eclatante, sottocutaneo. Il tratto della penna è testimone oculare, cronista minuzioso, infaticabile bracconiere della realtà. Il volume non è sfoggio erudito di un poeta, bensì mediazione di bisogni, istanze trasfigurate in ‘pensieri erranti’, in paziente recupero di un sostrato umano, che può riaffiorare dall’oblio con una forza dirompente, destrutturarsi per ricomporsi alla luce di un’operazione che, per dirla con Pirandello, può forse compiersi solo quando lo scrittore si guarda vivere, come fosse un altro, estraneo da sé.
Fortemente autobiografico, il volume si configura anche come un bilancio dell’esistenza, che abbozza le figure più rappresentative, le soste più significative, le speranze, le sconfitte, le vittorie di un percorso straordinario pur nell’ordinarietà di una vita vissuta con sobrietà ma anche con gli eccessi dell’amore in tutte le sue accezioni: filiale, fraterno, materno, umanitario.
Le sezioni della raccolta disegnano il tracciato della parabola esistenziale della stessa autrice, consegnando l’evoluzione di una figura femminile dal primo affacciarsi alla vita ai sacrifici dello studio, dall’affermazione nel mondo del lavoro alle fasi degli amori sino al costituirsi di una nuova famiglia, coltivando gli affetti primitivi e quelli connessi al ruolo di moglie e di madre, dalle gioie ai dolori sino all’instaurarsi della maturità piena e consapevole. In ogni fase tuttavia non c’è mai egocentrismo. L’occhio è sempre vigile sul prossimo e su ciò che vi gravita attorno.
L’autrice ama sperimentare talvolta forme espressive alternative. È il caso della lirica dialogica Immigrati africani o Neocolonialismo, in cui il lettore ideale può rimestare stati d’animo che gli appartengono, compiacersi di aver già meditato su quei passi, di aver fatto a tratti i conti con la paura, la diffidenza, ma anche con l’umana pietas rivolta ai troppi sventurati in cerca di una vita migliore. Nell’ultima strofa è la denuncia, che scuote la coscienza e apre scenari di riflessione: Vergognati fratello civilizzato del 2000 / nonostante i mezzi in tuo possesso / sei rimasto l’uomo delle caverne / novello Hitler hai predato ancora / imponendo il tuo dominio in terra sprovveduta / che per niente ti appartiene! / Con forza bruta hai ripetuto gli errori del passato. I versi hanno quasi il sapore dell’amarezza quasimodiana di Uomo del mio tempo, ponendo inoltre l’attenzione sull’annoso problema di rendere autonomi i Paesi più fragili, mediante la cultura dell’implementazione di know how, con trasfusioni di conoscenze e competenze direttamente erogate nei luoghi ingiustamente sfruttati e depredati.
La saggezza degli anni sbarra il passo alla voce per poter apprezzare l’epifania del silenzio, con il suo valore e il suo carico di risposte. Così in Primavera 2020 si scorge l’inno di speranza intonato dalla natura. Tutt’altro che mera cornice, essa partecipa alle aspettative come pure alle inquietudini dell’umanità messa sotto scacco dall’emergenza epidemiologica del Coronavirus. Anche gli uccelli infatti vivono il tempo coevo, sospendendo i loro “giochi aerei”. Nel paesaggio immobile i corpi sono prigionieri e la ragione frena gli slanci della fantasia che vorrebbe sconfinare. Nella crudeltà e tragicità del momento la poetessa si domanda se i “pellegrini assetati di reciprocità” potranno ricavare una lezione, un insegnamento per riordinare la propria scala di valori, per ricollocare le priorità dell’esistenza: Come bimbi ai primi incontri ludici coi coetanei / riapprezzeremo il gioco della fruttuosa convivenza / e impareremo a guardare con gli occhi dell’anima / la miseria, la solitudine, l’alienazione / di chi ci vive accanto o lontano… / Cambieremo il corso della storia / il volto della vita / moltiplicando ogni giorno / i gesti di reciproco Amore!
A restituire la voce di molti dei componimenti della raccolta è stata Maria Valeria Sanfilippo (dottore di ricerca in Filologia nell’Università di Catania) e Salvo Valentino, docente di Lettere, attore professionista e fondatore della Compagnia dei Giovani, apprezzati dal pubblico accorso all’evento.
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