Oggi Google torna sul banco degli imputati, con il caso "Vividown" - di bullismo verso un ragazzo considerato Down finito su YouTube- che vede accusati i vertici di Google per "illecito trattamento dei dati e diffamazione": il pm ha fatto la requisitoria finale davanti al giudice Maggi (quello del sequestro Abu Omar) di Milano, chiedendo quattro condanne tra sei mesi e un anno per quattro dirigenti di Google accusati di concorso in diffamazione e in violazione della privacy. Il video era stato messo in rete l'8 settembre del 2006: ritraeva un portatore di handicap sbeffeggiato, vessato dai compagni di scuola in un’istituto di Torino. Per tre imputati la richiesta è di un anno, per un altro imputato accusato solo di diffamazione la richiesta è di sei mesi. Poi il 16 dicembre tocca alla difesa di Google, e subito dopo ci sarà la sentenza.
Per la Procura di Milano, la questione è di responsabilità e non di libertà o censura. «Sarebbe bastato davvero poco - osservano i giudici - per offrire un servizio in maniera responsabile e con l’osservanza delle leggi vigenti», ribadiscono i pm nella loro memoria, «certi di aver portato all’attenzione del tribunale di milano un problema che non interessa affatto la rete, ma solamente un certo modo di fare business ad opera di Google Italy e di tutte le società del gruppo Google, a discapito dei diritti fondamentali dei cittadini». Secondo i magistrati sarebbe bastata una forma di controllo responsabile per evitare la pubblicazione del video «rimasto per quasi due mesi - dall’8 settembre 2006 al 7 novembre 2006 - nella categoria dei ’video più divertentì, arrivando al 29esimo posto dei video più visti (per la precisione 5.500 volte) prima di essere rimosso».Infatti, scrivono i pm che «i controlli, anche per Google video,potevano essere ragionevolmente (e responsabilmente) fatti». E per sostenere questa tesi citano il caso del lancio di Google in Cina dove la società «ha accettato di aprire un motore di ricerca censurato per l’utenza cinese. Che è un pò come dire che si è contrari alla pena di morte, ma sul taglio della mano è invece possibile accordarsi». Quindi,i magistrati arrivano alla conclusione che «i filtri Google li mette solo se vi è spazio di guadagno», mentre il lancio di Google Video inItalia, visto che non aveva «l’opportunità di essere leader del mercato italiano dei video on line (come citano i pm da una nota interna di Google Italy)», trova la sua «possibilità di successo» nel lancio di «una piattaforma video di libero accesso e in grado di massimizzare la sua potenzialità diffusiva (virale), anche tramite la trasmissione di video ripresi con i cellulari».
Marco Pancini (Google Italia)risponde punto per punto: "Il parallelo controllo/censura presentaalcuni elementi critici che mi permetto di sottolineare. Il filtraggio di google.cn (quindi la versione localizzata in cinese del motore di ricerca) da parte del Governo Cinese è basato su una serie di parole chiave. Ad esempio, l'utente inserisce 'Tien an men' e riceve, invece della pagina con i risultati 'normale', un messaggio che dice: questo risultato non è accessibile in seguito ad una decisione del Governo cinese. Il filtraggio è limitato agli IP cinesi ed al motore di ricerca google.cn: se un utente riesce a collegarsi con l'IP di un altro paese a google.com, riuscirà ad evitare ogni censura. E' importante sottolineare che Google non comunica al Governo cinese i dati relativi agli utenti che fanno ricerche 'censurate' e fa lobby affinchè questo blocco venga rimosso (global network initiative). Va ricordato che questo tipo di censura è richiesto dalla legge cinese.
Grazie al cielo in Italia abbiamo leggi diverse: in particolare la Direttiva sul Commercio Elettronico, recepita dal nostro Paese nel 2003 (Decreto legislativo 70/2003),fissa in modo chiaro obblighi e diritti sia di chi gestisce un sito che di chi naviga e carica contenuti sul sito – gli utenti navigatori.Questa normativa impone ai fornitori di servizi su Internet di rimuovere un contenuto se l’autorità giudiziaria lo ordina, ma non li sottopone ad un obbligo generale e costante di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano. Questo appunto per impedire che gli ISP assumano un ruolo di controllori della Rete.
Per quanto riguarda Google Video ed il caricamento dei video per mezzo del telefonino, tutti i siti di user generated content funzionano così (solo per citarne alcuni):
Facebook: http://www.facebook.com/mobile/
Libero Video: http://video.libero.it/
Daily motion: http://dailymotion.virgilio.it/it
YouTube: http://www.web-experiments.org/2008/02/09/come-mettere-un-video-su-youtube/
Non mi sembra che Google Video fosse molto differente".
E forse i pm potrebbero trarre beneficio dalla lettura del libro uscito recentemente di Francesco Antonucci, 'L'algoritmo al potere, vita quotidiana ai tempi di Google'), dove si spiega perchè Google Video è stato un fallimento e indirettamente si smentisce la ricostruzione dei pm...
Commenta l'avvocato Carlo Blengino, esperto di diritto digitale: "E’ sorprendente sostenere che la vicenda non interessi affatto la Rete, quando a finire sotto processo per fatti imputabili agli utenti è un ISP che offre un servizio di mero hosting.E’ poi stupefacente l’accostamento tra un servizio quale era GoogleVideo all’epoca dei fatti, ed è oggi YouTube, che si limita ad“ospitare” contenuti immessi dagli utenti ed un motore di ricerca che offre un prodotto totalmente differente. Sarebbe come paragonare un’autostrada con un’ azienda di trasporti: entrambi veicolano “merci informazionali” ma con modalità non comparabili. Bastano davvero poche riflessioni per comprendere come la tesi della Procura possa esser questa sì foriera di inaccettabili compressioni di diritti fondamentali nel nostro tempo. Ciò che deve preoccupare non è l’assenza di “filtri”o di “controlli, ma semmai il contrario, ovvero che in rete vi siano“filtri” e “controlli” più o meno dichiarati, piegati al business o peggio all’ideologia".
Luciano Floridi, fondatore del gruppo di ricerca sulla filosofia dell'informazione a Oxford, spiega:"Google offre uno spazio digitale in cui gli utenti possono scambiarsii propri files, impegnandosi a rispettare le regole dell’offerta (termsof service) e la legislazione vigente. Se queste regole o leggi sono violate, Google giustamente interviene, come ha fatto prontamente nel caso Vividown. Accusare Google di responsabilità morale è quindi come accusare un parcheggio perché dei ladri sono stati in grado di abbandonarvi momentaneamente una vettura rubata: si deve essere molto confusi. La seconda obiezione è che, riprendendo l’esempio precedente, il parcheggio può non essere in grado di prevenire l’abbandono della macchina rubata nel suo spazio,ma nel mondo digitale ciò è tecnicamente fattibile. Quindi la responsabilità morale di Google sarebbe quella di non aver fatto abbastanza: avrebbe dovuto monitorare quale sorta di video veniva caricato e impedirne la diffusione a monte, senza aspettare di rimuoverlo a valle. L’errore, in questo caso, è duplice. Da una parte, si pecca di ingenuità. La mera possibilità tecnica non implica la responsabilità morale:anche il parcheggio potrebbe installare strumenti di prevenzione tecnologica, come videocamere collegate con le banche dati della polizia, ma ovviamente a nessuno passa per la mente di incolparlo moralmente se non adotta questa soluzione. Così, sarebbe possibile che ciascuno di noi rinunciasse a tutto per alleviare le vite di coloro che soffrono, ma sarebbe assurdo parlare di obbligo morale. Il problema è ben noto e si chiama “superogazione”, termine che indica il “chiedere troppo”, al di là del moralmente doveroso e del fattibile praticamente.A questo la risposta sembra essere che, nel migliore dei mondi possibili, Google avrebbe potuto prevenire il caricamento e la diffusione del video. Così si pecca di irrealismo, e questa è l’altra parte dell’errore: in quel “migliore dei mondi possibili” non ci sarebbero stati né maltrattamenti né registrazione. In questo mondo reale, il grande beneficio recato da strumenti di diffusione e interazione informativa come Google Video devono e possono essere conciliati sinergeticamente con la protezione dei diritti umani.
Eticamente, la strategia migliore non è instaurare un’autoritaria censura preventiva, che causerebbe un immenso danno al libero scambio delle informazioni e soffocherebbe una buona cultura della rete, ma censurare tempestivamente e fermamente chi non rispetta le regole della convivenza civile online. In altre parole: applicare regole come quella del safe harbor,che fanno prosperare il nostro ambiente digitale e la cultura liberale che esso promuove. Esattamente come ha fatto Google nel caso Vividown".
E per finire, precisa: "Si tratta di un ragazzo, non di un bambino (o la prossima accusa sara' di pedofilia...). E il ragazzo non e' down, ma autistico, come dichiara la famiglia. Sono i bulli ad aver tirato in ballo, fuori luogo, ViviDown per un ragazzo affetto da altri problemi.A latere: ma a qualcuno interessa piu' la verita' dei fatti e la giustizia nella loro valutazione?".
Speriamo che questo caso sia un'occasione per chiarirsi le idee sulle regole e la giustizia nell'era digitale. (da lastampa.it)
Anna Masera