Mi ha scritto una
diciottenne, che ha proposto la lettura di un mio articolo, durante
l’ora di
religione. Nell’articolo invitavo i ragazzi a desiderare cose grandi e
gli
adulti a mostrarle attraverso la loro vita, dando spazio all’istanza
centrale
dell’adolescenza: la fame di bellezza, verità, bene. Quindi invitavo ad
approfondire la domanda di senso sul mondo e le persone, vero banco di
prova
perché l’io rispecchiandosi nel mondo, si conosca e ami, e possa quindi
emergere e costruirsi secondo la propria vocazione. La vita ci è data e
l’adolescenza è la stagione per accettare questo “dato” come “compito”:
vocazione (chiamata e risposta). Solo il senso e la ricerca di senso dà
all’io
dell’adolescente gli strumenti per scoprire ciò che è venuto a
raccontare di
unico, ciò che è venuto a creare. Un proverbio ebraico dice che Dio ha
creato
l’uomo per sentirgli raccontare storie. Noi raccontiamo la nostra
storia quando
l’assumiamo come compito: la nostra e quelle di chi ci è affidato.
La
ragazza racconta che i
ragazzi erano attenti e interessati, ma che ad un tratto il professore,
un
sacerdote, l’ha interrotta dicendo che la realtà descritta
nell’articolo non
esiste e che i ragazzi cercano solo cose materiali e divertimenti
effimeri, altro
che il senso… La ragazza ha risposto alla forzatura ideologica
(generalizzante
e pessimista nel confondere i sintomi con le cause) con l’evidenza
della carne:
lei era la testimonianza di quella ricerca. Il professore l’ha
rimproverata del
fatto che quella ricerca non emergeva dal sul modo di stare in classe e
che le
domande fondamentali della vita erano nel programma di secondo anno e
non era
suo compito tirarle fuori.
Fare
l’insegnante è una
vocazione stipendiata. Per non parlare del sacerdote, che è una
vocazione e
basta. Una vocazione il cui stipendio è l’unicità della persona, sempre
degna
di ogni sforzo. Anche se tutti i ragazzi del mondo fossero superficiali
e
immorali, come li descriveva il professore, a maggior ragione saremmo
“chiamati” (vocazione è ciò che la realtà chiede, non quello che noi
vogliamo
la realtà sia) a prendercene cura. Dio si è incarnato a dispetto delle
statistiche e si è occupato di coloro che ricadevano sotto il suo
raggio di
azione spazio-temporale di 33 anni in Palestina, e spesso erano proprio
i
cosiddetti “peggiori”. E lui era venuto per quelli. Si fa uomo proprio
perché
l’uomo ha bisogno di lui e risveglia nell’uomo la nostalgia di quel
cielo che
l’uomo è capace di guardare, ma spesso dimentica come fare. Gesù dava
del tu a
tutti, non generalizzava, cercava e trovava il bene sempre, sapeva
contare
sempre e solo fino a uno: la persona. Si occupava del bene piccolo, lo
curava e
lo faceva crescere, come il Padre si prende cura dell’erba del campo.
Lo
chiamavano Maestro, perché
aveva l’autorità della verità unità all’amore. Ogni maestro, partecipa
alla
vita del Maestro: essere mediatore di conoscenza vera e dare spazio e
fiducia
al bene che c’è in ogni uomo, lasciandolo libero di scegliere. Il
giovane ricco
se ne andò, anche se il Maestro gli disse la verità e “fissatolo lo
amò”.
L’insegnamento
è arte
dell’incarnarsi, entrare nelle contraddizioni del caos del cuore
adolescente e
dare fiducia a quel caos. Educare è educare alla libertà sino al
rischio di
fallire, ma lasciare la porta aperta per un ritorno del figlio che
temporaneamente (cioè per tutto il tempo della libertà) si è
allontanato.
Inganno sarebbe seguire il figlio nella sua fuga dalla realtà. Pensate
se il
prodigo si risvegliasse con il padre a fianco, a pascolare i porci con
lui.
Inganno è anche rimanere arroccati nel proprio castello e giudicare in
modo
sprezzante il figlio che torna pentito dal sul caos, per mettere un po’
di
ordine. L’amore del Padre è preventivo, è roccia, non è conseguenza dei
meriti
del figlio. L’ho visto fare a Padre Puglisi nel mio liceo, di lui
scrive una
studentessa: “Non plasmava, non condizionava, non imponeva, non
giudicava,
attendeva i tempi di ognuno. Anche se bisognava aspettare anni.
Parlando
metteva in evidenza le cose belle, il cammino fatto, anche se piccolo.
Diceva:
guarda sei migliorata, ora fai un altro passo”.
Vorrei
avere anche io quella
pazienza che sa aspettare e andare incontro quando finalmente uno
spiraglio si
apre, che mette in evidenza il piccolo passo positivo. A questo è
chiamato un
maestro, questa è la sua vocazione. Chi sta con adolescenti è chiamato
ad
accettarne il caos, sapendo che è la strada per l’ordine, solo chi è
nel caos
tumultuoso dell’adolescenza ha fame di senso. Il Maestro non ha avuto
paura del
caos dell’uomo, ci è sprofondato dentro, si è fatto caos, per ridarci
l’ordine.
Di
Alessandro D’Avenia dalla rubrica Per chi suona la
campanella,
Aprile 2011