Per parlare
dei ragazzi bisogna
guardarli e ascoltarli. Non in televisione, ma in carne e ossa. Da
quando
insegno ho sempre avvertito una certa distanza tra i ragazzi che
incontravo in
classe e quelli raccontati dai media. Il ragazzo che emerge dai media
non è
reale: come il marziano che cercando di decodificare i segnali usati
dagli
uomini senza conoscerli pensa che il semaforo rosso obblighi a fermarsi
e
mettersi le dita nel naso. La distanza tra realtà e rappresentazione ha
lentamente scavato dentro di me il desiderio di raccontare il volto dei
giovani
che le telecamere non inquadrano. I ragazzi mi sembravano molto
migliori di
come ce li raccontano, ma non volevo cadere nell’errore opposto: una
rappresentazione ideologica nell’altro senso.
Posso
essere felice?
Negli
anni precedenti all’uscita del mio
libro sono andato in giro per molte città italiane per conoscere realtà
scolastiche diverse grazie all’esperienza di professore e a quella di
esperto
di educazione e media, punto di osservazione privilegiato per cogliere
i
bisogni di questa generazione. Dopo l’uscita del libro la mia
possibilità di
incontrare ragazzi di scuole e città diverse si è moltiplicata aldilà
di ogni
mia più rosea aspettativa, ed è stato uno dei doni più interessanti del
libro.
Sono stato in decine di scuole di tutto il Paese e ho incontrato
migliaia di
ragazzi, con un dispendio di energie ripagate cento volte tanto: chi
sta con i
giovani diventa giovane. Il libro era il punto d’appoggio su cui fare
leva:
durante gli incontri si partiva dal libro per raggiungere altri porti.
Questo è
accaduto senza forzature, perché erano i ragazzi stessi a porre domande
a un
interlocutore che ritenevano valido per il semplice fatto di aver
parlato di
certi temi in un romanzo. Ho trovato un’accoglienza sorprendente (in
scuole di
tutti i tipi), e spesso gli incontri si svolgevano in orario
pomeridiano, a
partecipazione libera: centinaia di ragazzi. Li ho visti rimanere oltre
l’orario scolastico, ritardare l’orario del treno, organizzarsi
affittando un
pullman... per ascoltare un professore parlare di un libro. Mi chiedevo
dove
fosse la ragione di questa mobilitazione. La risposta era nelle loro
domande:
venivano per chiedere su dolore, morte, felicità, amore, sesso, Dio,
fede,
paura... Insomma quelle domande che ruotano attorno ai quesiti di
sempre,
riassunti nel grido: posso essere io felice? Percepivano nel libro uno
spiraglio su un mondo desiderato. Niente muove le persone come la
felicità,
niente muove un ragazzo o una ragazza come la possibilità di
raggiungerla.
Donare
il tempo
Mi
ha colpito il fatto che mentre molti
adulti mi ringraziano o criticano per quello che faccio o dico, per la
mia
performance, i ragazzi ringraziano soprattutto per il tempo che dedico
loro:
«Grazie per il suo tempo» è il grazie più frequente. Così ho capito che
prima
ancora di giudicare i ragazzi che ho di fronte devo giudicare l’uso che
faccio
del mio tempo: quanto tempo dedico ai miei alunni al di fuori delle ore
in
classe? Tempo di quello vero: che prendi e butti via per loro. Donare
tempo è
l’unica forma di amore reale: Dio si è fatto tempo per regalarci il
senza
tempo. Il ringraziare per il tempo donato manifesta due punti forti di
questa
generazione: la silenziosa richiesta di ascolto da parte degli adulti
(che
rinfacciano loro proprio il fatto di non ascoltare, ma perché una
persona
ascolti deve essere prima ascoltata) e la capacità di ringraziare
quando
riconoscono la gratuità. Sono attratti dalla vita come dono, non come
prestazione
o come consumo egoistico.
Niente
effetti speciali
Negli
incontri non vado a fare
pubblicità al mio libro, ma vado a complicare le loro vite, a
spronarli, a
metterli in crisi. Molti di loro escono in crisi, una crisi positiva,
una
benedizione, la crisi di chi scopre che può liberare delle forze
imprigionate.
Solo a contatto con la ricerca della verità le forze di un ragazzo si
liberano,
la libertà è messa in gioco. Non uso effetti speciali, solo le parole.
E la
parola che loro vogliono sentire non è quella che dà soluzioni, quella
non
l’ascoltano, ma la parola accompagnata da occhi che brillano, la parola
vissuta, la parola che cerca la verità e la ama senza nascondere la
fatica e
gli insuccessi. Questi ragazzi hanno bisogno di persone che manifestino
di non
avere paura di vivere, anche se la vita fa tremare e non bisogna
nasconderlo,
solo così cominciano a generare la vita e si sentono spronati a farlo,
nell’età
in cui il loro corpo scopre di essere fatto per generarla. Ma abbiamo
talmente
anestetizzato la verità e virtualizzato la realtà che le verità più
evidenti
come il corpo, l’amore, il sesso, il dolore, la morte, la felicità,
Dio...
diventano allegorie ideologiche, ingabbiate in interpretazioni
preconfezionate
prima ancora di essere vissute, e questo vale anche in ambito cattolico.
Ho visto ragazzi creare canzoni, pezzi teatrali, balli, video ispirati
al
libro. Ho ascoltato confidenze disperate di ragazzi che non riuscivano
a
trovare un adulto a cui chiedere aiuto, ho visto ragazzi alla ricerca
di un
sogno diverso da ciò che si può comprare. Mi sembra di avere a che fare
con una
generazione che è stata generata biologicamente ma non culturalmente, e
quindi
è privata di un ordine simbolico e narrativo grazie al quale
interpretare
esperienze ed emozioni. Se manca il senso si perdono i significati.
Dolore
senza significato, vita senza significato, sesso senza significato...
Ecco cosa
cercano: una capacità di lettura della realtà, che se viene a mancare
oscilla
tra labilità delle emozioni (più forti sono, più mi sento vivo) e
dipendenza
dal più forte, dal così fan tutti (conformismo). Entrambi gli
atteggiamenti
scavano un pozzo di dolore nei loro cuori, una prigione interiore di
noia e
incertezza.
C’è
bisogno di adulti
Quali
le risorse da intercettare? Infinite.
La loro fame è maggiore, perché più profonda. Più difficile da
raggiungere
perché più facilmente soddisfatta da surrogati.
Ho incontrato ragazzi che a 14 anni hanno già messo in piedi business
leciti da
centinaia di euro, ho incontrato ragazzi che a 16 anni hanno inventato
una
radio dal computer di casa loro, ho incontrato ragazzi generosi e
disposti a
mettersi in gioco per gli altri, se solo qualcuno sfida le loro vite e
le
inserisce in un orizzonte più grande. Ho incontrato anche ragazzi
cinici, scettici:
già arrugginiti e disincantati alla loro età, rifugiati in un mondo
piccolo
piccolo di affetti privati e ossessivi, droghe e disturbi di vario
tipo, senza
interessi o passioni, se non quelle capaci di scatenare adrenalina.
Ecco cosa mi ha scritto sul blog (profduepuntozero.it) una sedicenne:
«Prova un
giorno a travestirti da insegnante precario e a insegnare a una terza
aziendale, dove sono tutti ragazzi che spacciano a cui non importa
nulla di
avere un diploma... O semplicemente nella mia classe, ghetto di ragazze
popolari che arrivano la mattina strafatte di canne e dormono tutto il
tempo
con la testa sul banco... Prova a insegnare Dante, Boccaccio e Petrarca
a dei
ragazzi che non sanno cosa vuol dire amare la vita... E i professori si
lasciano trasportare, un po’ come quei ragazzi, a quella stessa
condizione,
pensando che non ci sia più nulla da fare. Il più di volte troviamo
insegnanti
con poca voglia di vivere, quindi di lavorare, quindi di insegnare.
Allora la
domanda che sorge è se non bisogna cambiare il mondo adulto prima di
voler
cambiare il mondo adolescenziale, prima di lavorare sull’insegnamento
lavoriamo
sugli insegnanti». Accolta la provocazione le ho risposto che sono
stato
precario sino all’anno scorso (33 anni), che ho cambiato due volte
città
(Palermo, Roma, Milano), che ho cominciato a insegnare alle medie e in
un
doposcuola di un quartiere disastrato della mia città natale. Ho
incontrato
ragazzi del liceo, ma anche di istituti professionali, tecnici, nautici
e chi
più ne ha più ne metta, e non li ho trovati meno motivati e reattivi
dei primi,
anzi, gli incontri più interessanti li ho avuti proprio in questo tipo
di
realtà. Le ho poi chiesto spiegazione su alcune delle dinamiche
autodistruttive
descritte e mi ha risposto: «Non tutti sono capaci di costruire il
ponte della
comunicazione tra alunni e insegnanti, certi ci provano ma usando un
legno
scadente che si distrugge alla prima bufera. Allora si rinuncia a
ricostruirlo
con gli strumenti giusti e si resta bloccati ognuno dalla propria parte
senza
possibilità di congiunzione. A me personalmente la distanza fa paura.
Fa paura
a molti ragazzi. Hanno paura che nessuno in realtà possa davvero
arrivare a
concepire almeno in parte il loro dolore, spesso perché a casa, la
famiglia non
si rende conto del disagio e li abbandona emotivamente a loro stessi,
così
quando arrivano a scuola cercano in qualche modo di attirare una
silenziosa
attenzione, cercano di esternarlo con comportamenti "animali",
sfogando una rabbia e una tristezza davvero spaventose. Ai ragazzi
forse
importa avere un diploma, il problema è che se non hanno le basi
affettive
indispensabili per affrontare la crescita con le sue difficoltà, non
avranno le
energie necessarie per arrivare a guadagnarselo. Se però sono stanchi a
16 anni
e la vita ti annoia, probabilmente l’apatia affettiva li ha già
svuotati e non
sanno come andare avanti, con che forza e per quale scopo. I genitori
sono
lontani anni luce sensibilmente parlando. Allora ci provano con gli
insegnanti,
insomma con qualcuno che ricordi loro, e chiedono aiuto attraverso i
loro
comportamenti. Abbiamo pochi professori che se ne accorgono, pochi
quelli che
ci tengono davvero. Per questo sei l’eccezione che conferma la regola.
C’è
bisogno di adulti: chi c’è? Se fossi un’insegnante mi rimboccherei le
maniche
per fare la mia parte, non emarginando nessuno. Se fossi un’insegnante
cercherei di sfruttare al meglio gli attrezzi che ho a disposizione».
Io meglio
non avrei saputo dirlo.
«Prof,
avremo un futuro?»
La
meglio gioventù c’è, ma la meglio
"non-gioventù" dov’è? Il problema restiamo noi adulti e la cultura
che abbiamo costruito attorno a questi ragazzi. Così mi scrive una
maturanda:
«La prof di italiano ci ha detto: Smettete di sognare, non ne vale la
pena...
perdete solo tempo... vivete con i piedi per terra perché con una
generazione
senza futuro e senza valori come la vostra solo vivendo razionalmente
riuscirete a concludere qualcosa... Non date retta a certi professori
che vi
spingono a osare... a puntare in alto... a credere che ogni tanto la
botta di
"fortuna" arrivi per tutti... la fortuna non esiste... esistono solo
raccomandazioni e raccomandati... quindi rassegnatevi...».
La misura alta del quotidiano di cui parlava il beato Karol è spazzata
via.Il
criterio di felicità è ridotto al successo e non alla capacità di
sognare la
vita che ci è stata data, accettare e trasformare il destino che
abbiamo in una
vita personale, vivendo per la ricerca di verità, bene e bellezza nello
spazio
consentito dai nostri limiti e pregi. La razionalità è pura funzione
pragmatica. «Ho paura prof, tanta paura, paura di crescere, paura che
la prof
abbia ragione, paura di sognare. Sono demoralizzata perché mi rendo
conto che
forse non avremo mai davvero un futuro. È così brutto a 18 anni pensare
questo...».
L’epoca
delle passioni tristi
La
meglio gioventù c’è, non c’è però
speranza, perché le utopie si sono rivelate tali. La meglio gioventù
c’è: c’è
quella forte, con alle spalle famiglie forti, che stanno già costruendo
il loro
futuro e non aspettano altro che il tempo faccia il suo corso con chi
li ha
preceduti (la società italiana è una piramide rovesciata, pochi giovani
portano
il peso di un’Italia che invecchia). C’è la gioventù fragile, che
soccombe
sotto i colpi del cinismo e del disfattismo di chi spesso non vuole
fare i
conti con i propri fallimenti, ma anche questi cercano interlocutori
per
sopravvivere e a volte la loro fragilità esplode in richiami che non si
possono
ignorare: dipendenze, disturbi alimentari, suicidi. Sono i frutti più
maturi
della dittatura del relativismo. Ho sentito una professoressa dire,
dopo un mio
incontro: «A scuola dobbiamo seminare dubbi, non certezze». Io non
semino
certezze, ma voglia di vivere per la verità, il bene e la bellezza.
L’alternativa non è tra dubbi e certezze, ma tra senso e non senso
della vita.
L’epoca delle passioni tristi (titolo di un libro che ogni educatore
dovrebbe
leggere) è l’epoca che ha imbrigliato le risorse migliori, perché la
ricerca
della verità è stata rimossa dal centro della società e delle
relazioni. Non si
genera vita perché si ha paura di vivere e si ha paura perché non c’è
verità da
seguire.
Chi paga la dittatura relativista sono quelli che per essenza sono
fatti per la
verità: i giovani. Le loro passioni tristi sono la nostra mancanza di
vita
interiore e di tempo, il nostro attaccamento alle cose prima che alle
persone,
la nostra fatica a donare, la nostra ebbrezza di carriere e consumi.
Valgano le
parole del rabbino di un romanzo di S.Zweig: «È più forte chi si
aggrappa all’invisibile
di chi confida nel percepibile, perché questo è effimero, quello
permanente».
Avremo il coraggio di tornare ad aggrapparci all’invisibile?
Alessandro
D'Avenia - Avvenire