Lettura particolarmente consigliata ai docenti e dirigenti, ai settari, agli ignoranti di ogni risma della scuola italiana, ai componenti di staff di dirigenza che confondono ruoli con abuso del ruolo, ai politicanti della scuola, ai voltavoltagabbana, ai sindacalisti RSU che non tutelano i lavoratori bensì i propri interessi, ai tanti lavoratori della scuola che ogni giorno lavorano onestamente e con impegno ma, che rischiano di diventare una minoranza. Un libro da leggere, per autoeducarsi. Il diario di una giovane insegnante, per continuare con onestà intellettuale, a credere nella scuola di tutti e di ciascuno, per ritrovarsi, ''eroi per caso e malgrado tutto'', tra le pagine di un bel libro che racconta storie, non solo di scuola.
I libri e i diari di insegnanti sono diventati un caso editoriale, un vero e prorio genere letterario con marche di stile e di contenuto, una tradizione fatta di pochi classici e una lunga serie di epigoni di varia qualità. Tra i primi si pensi al Diario di una maestrina di Maria Giacobbe o si pensi alle sorelline Agazzi, c è chi scrivendo di scuola come la Mastrocola e Pennac, hanno trovato la via di fuga da banchi e collegi docenti, ci sono volumi per tutti i gusti, prof blogger, umoristi, arrabbiati, strappacuore, acide, disperati, snob ecc. recensiti ogni tre mesi sulle pagine dei settimanali, per poi ritrovarli tra le bancarelle dell'usato.
Lo schema narrativo tipico del libro ambientato a scuola, prevede che l’insegnante sia al suo primo incarico, in assoluto o in una scuola nuova, e che l’ambiente socio culturale in cui finisce a lavorare le sia estraneo. La narrazione è, ovviamente, scandita sui tempi scolastici: tri o quadrimestri, dall’autunno all’inizio dell’estate, in un crescendo di conoscenza e di confidenza con l’ambiente e il mestiere. La situazione iniziale è di timore, estraneità, inesperienza e grande fatica; l’istituzione è sempre dipinta come di nessun aiuto e respingente. Ben presto tra colleghi e alunni emergono i caratteri chiave: nomi e/o cognomi, reiterati come in un appello quotidiano, si legano a personaggi, destinati alcuni ad acquisire spessore e significato, altri a rimanere solo macchiette o tipi. Si arriva alla primavera: la maestra o il prof hanno lavorato duro e giungono le meritate soddisfazioni. La sintonia col mondo delle alunne e degli alunni è trovata; lo scontro con l’istituzione registra uno o due episodi salienti. La primavera segna insomma l’acme della vicenda narrata mentre la fine dell’anno, al sopraggiungere dell’estate, è il tempo del raccolto: il rito conclusivo degli scrutini adombra nella sorte di promossi e bocciati il confronto incerto e spesso ingiusto che fuori le mura della scuola attende alunni e alunne, mentre la prof o il maestro ripartiranno per chissà dove.
Chiaramente questa traccia è dettata dalla natura di resoconto più che da convenzioni letterarie: chi sta nella scuola sa che così funziona l’anno scolastico e così lo registra la coscienza. Quanto poi a ricavarne un bel libro è un’altra faccenda e dipende dalla qualità letteraria della scrittura e dalla capacità dell’autore di trascendere la cronaca per un apporto di verità e conoscenza.
''Quelli che però è lo stesso'' di Silvia Dai Pra’, edito da Laterza nella collana Contromano, appartiene indubitabilmente al genere ma altrettanto indubitabilmente ne travalica i confini: non solamente è il ritratto originale del funzionamento di un istituto della periferia romana e di un individuo vivo che piomba come impiegato nel meccanismo dell’istituzione ma è anche un intelligente e prezioso reportage sul “mondo popolare” della periferia metropolitana. Non è insomma il libro di una sola stagione e ha molto da dire.
Nel libro vi troviamo una voce che racconta veramente viva, che si interroga sulla sua situazione, da dove guarda da dove parla, cercando di comprendersi senza sconti né compiacimenti, sia all’interno di una generazione che nel ruolo di una lavoratrice della scuola. Silvia ha trent’anni, una vivace vita culturale e sociale a Roma, è piena di interessi, vuole scrivere e ha appena concluso brillantemente un dottorato come ultima tappa di una brillantissima carriera di studi che la porta, per circa mille euro al mese, ad accettare un incarico annuale in un istituto professionale di Ostia, corso serale compreso. Come spiega bene nelle prime pagine non si tratta di Trento Padova o Firenze: al serale di Ostia non ci sono stranieri o adulti super motivati. Roma è metropoli e guarda a sud, sui banchi trova «loro: i ragazzi espulsi da tutte le scuole del regno». E ci trova anche gli adulti della mutazione culturale italiana, incalzati dalle difficoltà, dalla meschinità e dalla grettezza di chi è mal cresciuto con brutto lavoro e brutta televisione. Dei non adulti insomma, indistinguibili nell’irresponsabilità e nei consumi dai giovanissimi: «sulla pelle hanno gli stessi tatuaggi dei ragazzi, sulle unghie gli stessi adesivi zebrati, ai piedi le stesse zeppe in odor di tendinite, sui banchi appoggiano le stesse tette, gonfie, esposte, solo più esauste». Potrebbe parere questo un luogo comune eppure Dai Pra’, nel correre felice della sua prosa, è sempre guardinga contro i falsi pensieri e gli stereotipi, pronta a verificarli al fuoco dell’autoironia. Sorveglia se stessa, i propri pensieri, ignoranze e certezze, si rispecchia per smascherarsi e per vedersi trasformata dall’esperienza che sta vivendo: «storie che ancora aleggiano dentro di me e che io, stasera, mi porterò appresso, nonostante all’inizio dell’anno mi fossi promessa di non diventare lei, la professoressa crocerossina che si affanna dietro i problemi degli studenti» e difatti non ci diventa ma in compenso racconta una salute possibile nelle relazioni anche a scuola, nonostante la scuola. Nelle cornici ben tratteggiate (lo scempio architettonico del quartiere; i corridoi, le aule, le formalità del tempo scolastico) Silvia Dai Pra’ avvicina progressivamente l’universo delle ragazze e dei ragazzi, lo racconta attraverso i dialoghi, i piccoli episodi, la descrizione attenta di vestiti e acconciature, di modi di dire, di riferimenti e ritornelli “sub-culturali”, della maniera di stare assieme, leggere il mondo e diventare grandi. Le riesce meglio di tanti libri di sociologia, psicologia o narrativa che pure ci provano, come ad esempio il francese Bégaudeau nel film La classe, di cui pure si parlò abbastanza qualche anno fa e che dimostrava un’attenzione simile nel registrare le dinamiche di relazione dentro le aule. Le interessa vivere e comprendere, perciò verifica le vicinanze e le distanze da quelli incontra, che siano alunne colleghi o bidelle, misura le differenze in termini di reazioni, di libertà e possibilità, scrivendone.
Purtroppo, per quanto metta continuamente alla prova le sue percezioni, ciò che l’io narrante al fondo registra è l’incomprensione della spietata assenza di senso in cui debbono vivere la loro giovinezza i suo fratelli e sorelle minori. La città metropolitana si rivela in periferia come cattività del vacuo, un grado zero delle passioni (crescere, amare, avere amici, passioni, lavori e rapporti) rimaste nude e lasciate in balia della ciancia commerciale, tra rottami di discorsi feroci, rifiuti della complessità. La bruttezza materiale e culturale dell’ambiente circostante, la povertà linguistica ed estetica, l’inedia culturale sembrano azzerare il tempo individuale e collettivo, bloccando tutti i destini sotto una dominazione che non si sa se più o meno feroce di quella di un tempo ma sicuramente profondissima e cattiva. Questo è ciò che decifra il lettore mentre segue la cronaca dell’anno scolastico e delle scoperte della giovane intellettuale sul lavoro nella scuola. Con ironia e leggerezza sono toccati anche i piccoli, claustrofobici drammi del giovane impiegato scolastico: il valore dei gesti e delle riflessioni annullato nella ripetizione inesorabile di formule e rituali stantii; la pretesa di fare bene un lavoro serio e l’idea che le regole abbiano un loro fondato valore svelati come fantasmi dell’adolescenza. E poi ancora: la sensazione di essere una contro tutti; sentirsi completamente diversa dalle altre colleghe e sospettare che non sia più vero; il domandarsi se la propria sia connivenza oppure solo una resa senza importanza perché tanto il luogo della lotta non può essere lì dove si viene inevitabilmente trascesi dalla macchina istituzionale, falsificati nella minuscola parte assegnata nell’apparato teatrale del carrozzone.
Si ride leggendo della preside Concetta Rossi Esposito, sintesi dell’arroganza settentrio-meridionale concessa in questo paese a un funzionario ignorante e trafficone elevato al grado di manager di millequattrocento alunni, tra finanziamenti pubblici ed europei spartiti con amici e parenti; si ride delle solite macchiette: la prof anti berlusconiana ma iper-giustizialista, la borghese del quartiere bene che insegna per sfizio ed è paternalista in maniera cinica e nauseante, il collega col doppio lavoro sempre assente e il belloccio inconcludente che a quarant’anni è precario e già divorziato. Tutte e tutti pronti a scrivere e dire il falso, ad autogiustificarsi con foga, disposti a cercare di capire solo fino al punto in cui non gli costa nulla. È divertente ma fa male, perché non deve andare così ed è dei ragazzi e delle ragazze che si fa spreco. Non accade solo a scuola, certo, eppure è il posto dove gli si dice di andare e di restare, dove loro stessi confusamente si aspettano di fare esperienza di vita e di comunità, di dover e poter credere alla retorica buona. Un microcosmo simbolico di questa nostra Italia fatta di miserie e ingiustizie. Nel libro la Dai Pra’ lo dimostra esemplarmente con l’episodio della visita a Montecitorio, che potrebbe essere banalmente didascalico e invece è intenso: loro, «i barbari», non fanno chiasso ma guardano tutto attentissimi e restano delusi dall’assenza di decoro e impegno dell’aula. Nonostante sappiano che la politica è tutta corrotta, pur tuttavia si aspettano qualcosa. La sintonia e il patto di lealtà con queste aspettative profonde e inespresse fa la differenza tra un’insegnante inutile e una come la Silvia di ''Quelli che però è lo stesso''. La quale non si sa se continuerà a farlo, non ha il pallino della didattica o della pedagogia, non la prende come una missione e non trae bilanci o verità però permette di intuire una possibilità. Si può stare nella scuola come persona viva e vera, non dormiente e non quieta. Senza andare di petto contro la stolidità della forma morta dell’istituzione e del potere (almeno fin quando non si saranno trovate abbastanza compagne e compagni) ma portando nella scuola se stessi, i propri studi, portandoci il mondo, fertilizzando con le proprie inquietudini e passioni l’insegnamento, pensando davvero e non solo a parole che «insegnare è un bel mestiere», aprendo la porta dell’aula alla crisi economica, a quella dei modelli familiari e sentimentali, alla catastrofi politiche e culturali apparecchiate per le ultime generazioni, senza infingimenti. Alla fine dell’anno scolastico l’io narrante sembra trasformato e in meglio, perché comunque la giovane donna è andata e ha visto e ha vissuto, cercando di mistificare il meno possibile. Con umiltà, con poche illusioni, ridistribuendo quello che può e impegnandosi a capire il prossimo ma sopratutto insegnando ad amare la vita e la bellezza. Sono soprattutto loro, i ragazzi e le ragazze, che a fine lettura rimangono impressi. I coatti, i burini, le strappone, il gruppo HelloKitty, dannati forse e pure ancora innocenti e incompiuti, finalmente raccontati con rispetto e sensibilità. Alcuni personaggi spiccano più di altri, ovviamente, ma le corde più profonde (insegnare è un mestiere così umano e delicato) le tocca la relazione con Nadjette. L’alunna di origine marocchina che pare e forse è diversa da tutte le altre, che con la sua femminilità divergente rispetto a qualsiasi modello e con il suo ragionare unico diventa un magnete per le riflessioni e l’ispirazione della prof, donando momenti di poesia e verità.
Chi è stato a scuola sa che accade così e lo sa anche l’arte che ci ha dato recentemente film come Stella, Precious, Fish tanke, Corpo celeste, tutti intensi ritratti di ragazza.
Forse verrà dall’ultradisillusione una nuova forma di desideri e speranze, dalla crisi del femminismo un altro modo di immaginare la libertà per qualsiasi individuo oltre le tradizionali divisioni di genere.
Insegnare è divenuto un mestiere da donna, in un futuro prossimo (si spera), lo facciano sempre più uomini e, più donne in un modo nuovo.
Giusi Rasà