I capolavori
della letteratura mondiale sono anche, anzi soprattutto racconti di
storie private: Flaubert, Woolf, Proust, Mauriac, Kafka e persino
Petrarca, ci parlano di cose assai private. (Mi piace citare fra questi
grandissimi anche il mio amato ‘professore comisano’ che mi ha fatto
piangere ogni volta che ho riletto la storia della sua tisi e di
un’avventura sessuale con una ballerina moribonda). La domanda che ci
dobbiamo fare è però perché questioni così personali (‘onanismi
autobiografici, stucchevoli adulteri, infanzie foruncolose, uggiosi
nóstoi al borgo natìo, conflitti tra generazioni altrettanto
fallimentari, maldestri amplessi, etc.’), raccontate in molta narrativa
contemporanea non riescano più a diventare universali, perché non si
sporgono oltre la soglia di privatissime contorsioni emotive. Insomma,
che cosa manca? Che cosa è cambiato?
Propongo che una delle ragioni stia nello stile.
Siamo veramente oppressi da scritture in cui lo stile non conta più, la
lingua non è modellata o forgiata sulle emozioni, ma piegata agli usi o
finalizzata agli effetti. Il lettore si chiede: “Ma se questa emozione
lui/lei (lo scrittore, insomma) la può dire esattamente come me la dico
io, perché dovrei passare il mio prezioso tempo su un libro?” Non si
considera mai che oggi abbiamo pochissimo tempo da dedicare alla
Lettura, quella con la ‘L’ maiuscola, ovviamente.
Non si pensa mai che in realtà, leggiamo tutto il giorno, come in
passato non è mai accaduto, e che questo ci satura. Non abbiamo mai
fame di lettura perché ci rimpinziamo di post, messaggi, meme, mail:
‘patatine’ e cose dannose per il fegato che ci intossicano e non ci
nutrono, insomma.
Personalmente dubito che il problema stia nel che cosa si scrive, ma
nella perdita della capacità di molta scrittura contemporanea (non
tutta, i buoni libri esistono sempre) di dire ‘quasi’ le stesse cose,
di farlo altrimenti, con originalità di sentire, precisione
linguistica.
Manca la CREAZIONE della lingua, dello stile, dello sguardo e dunque
della realtà narrativa che di per sé non esiste ma è appunto il
prodotto di questo ‘soggetto’ perduto. Manca la creazione: l’unica cosa
che fa uscire il singolo da se stesso e produce l’altro da sé, e
diventa sguardo che si spinge oltre l’angusto recinto privato per
diventare universale. Una cosa del genere credo che debba averla fatta
persino Dio ...
Marta Aiello