C'è molta ignoranza,
oggi, sul tema "anarchia". Si continua a impersonarla nei regicidi
dell'Ottocento, o peggio nei black-block e nella guerriglia urbana. Si
continua a intenderla come caos e distruzione mentre, viceversa, è
sogno di armonia e di giustizia. E si ignora la profonda trasformazione
che (e non da ora) ha modificato le idealità e perfino l'antropologia
dell'anarchismo e dell'anarchico. Abbandonata ogni anacronistica idea
insurrezionalista, di rivolta immediata e violenta, abbandonata l'idea
ottocentesca e oggi inservibile d'un Potere incarnato in una figura
dispotica o in un governo, e sempre avversando la concezione comunista
della rivoluzione, oligarchico-burocratica e dagli esiti
inevitabilmente tirannici, l'anarchia (che da Proudhon e Bakunin a
Cafiero e Malatesta, da Tolstoj a Gandhi, da Emma Goldman a Landauer,
da Kropotkin a Berneri, da Simone Weil a Chomsky e a Colin Ward, si è
evoluta a ridosso delle profonde trasformazioni succedutesi in due
secoli di storia) si va sempre più trasformando in un'occupazione
pacifica e laboriosa dei gangli e degli interstizi del consorzio umano
e del "mondo offeso" per instaurarvi liberi esperimenti di
autogestione, di cooperazione, di economia condivisa e non asservita al
mercato, di pedagogia antiautoritaria, di sperimentazione creativa, di
armoniosa convivenza.
Gangli e interstizi, attenzione, che se si estendono e dilagano sono
mine micidiali, sono bombe ben più efficaci di quelle dei bombaroli
ottocenteschi, sono benefiche metastasi nella corrotta carcassa del
sistema tardo-capitalistico e della sua risibile epifania, l'impostura
della democrazia rappresentativa.
Posso dire che questa anarchia va somigliando sempre più al socialismo
umanitario delle origini? A quel "socialismo utopistico" esorcizzato e
svillaneggiato dal socialismo che si pretese "scientifico"? Già, ben
più che ai "demoni" di Dostoevskij l'anarchia oggi mi fa pensare,
semmai, a quella meravigliosa ondata di giovani populisti russi che
invasero le campagne, rischiando il patibolo la galera la deportazione,
per condividere gli stenti del popolo oppresso, per mettersi al suo
servizio e non alla sua testa, per realizzare una operosa fraternità
che fosse il germe della futura liberazione e di una società
effettualmente egualitaria.
Antonio Klidas Di Grado