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Costume e società: Perchè ormai i nostri ragazzi pensano che studiare sia inutile

Rassegna stampa
Quando, l'estate, vado al mare, prendo volentieri l'ombra vicino ai capanni dove giocano i bambini. Ci sono bambini di due, tre, quattro, cinque, sei, sette anni: qualcuno viene da Torino, altri da Firenze, da Prato, da Padova, da Trieste; e le voci mescolano e confondono i loro accenti.Mi piace ascoltare quel fitto o fittissimo chiacchiericcio infantile, interrotto da esclama zioni, grida, urla, pause, racconti. Fino a sette anni, i bambini parlano una lingua corposa, ricca, divertente: migliore di quella degli adulti che, lì vicino, fanno pettegolezzi o dicono barzellette. Poi vanno a scuola, ascoltano i discorsi dei professori e dei presidi, e la loro lingua si degrada.Paola Mastrocola, che dedica un piacevolissimo libro alla scuola italiana (Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda, tra qualche giorno in libreria), parla di rado delle chiacchiere infantili sulla spiaggia. C'è una sola condizione che le interessa: il ragazzo o la ragazza che frequentano le medie o la prima classe del liceo scientifico. Per loro, ha una passione insaziabile. Ogni mattina, alle sette e trenta, le ragazze si preparano per la scuola; jeans attillati, scarpine con un po' di tacco, cinturina di lamé, orologino Armani, brillante minutissimo alla narice destra, piccolo tatuaggio alla caviglia. Mezz'ora dopo, una massa scura occupa parlottando e fumacchiando la nebbia fitta che avvolge le scuole di Torino. I ragazzi e le ragazze hanno gli occhi cerchiati e tristi, il naso pieno di sonno, le spalle curve, le braccia penzolanti, lo sguardo perduto nel nulla, la bocca semiaperta, i capelli stanchi. Sembrano posseduti dalla noia.Nessuno, o quasi nessuno tra quei ragazzi perduti nella nebbia, ha voglia di andare a scuola. Nessuno si vergogna di questo rifiuto. Tutti detestano leggere o scrivere o ascoltare le lezioni. Qualche volta, basta ascoltarli per cinque minuti. Il lessico umano è immenso, ma i ragazzi ne conoscono pochissime parole: usano termini impropri, pasticciano, confondono ortografia e punteggiatura. Non sanno pensare. Non riescono a distribuire le idee e le sensazioni secondo una architettura. Elaborare i concetti e disporli nel tempo sembra, a ciascuno di loro, un'impresa disperatissima. Discorrono in modo vuoto e spento, con parole senza vita, senza agilità e movimento. Paola Mastrocola ama i suoi ragazzi perennemente annoiati, e in quei lunghi sbadigli percepisce delusioni, desideri, speranze. Quando guarda verso le cattedre, si accorge che i professori non posseggono il dono di insegnare. Nel mondo e nei libri, non esiste quasi nulla di noioso: tutto è misterioso, concentrato, enigmatico, affascinante. Basta saper capire e interpretare: ma i professori lasciano spento ciò che era spento, morto ciò che era morto. Sopra il loro capo, ci sono i volti dei presidi: sopra quello dei presidi, i sottosegretari; sopra quello dei sottosegretari, l'intelligenza sovrana dei Ministri-Riformatori. I Ministri hanno pretese grandiose, che si possono riassumere in pochissime parole: smantellare, mattone dopo mattone, la scuola: distruggere in pochi anni, o pochi mesi, gli studi, la lingua, il lessico, i significati, i vocabolari. Bisogna ammettere che ci sono riusciti. Oggi, all'inizio del febbraio 2011, rimane soltanto una vaga sembianza di quella che fu la scuola italiana. *** Nel 1943, avevo tredici anni, come gli alunni sonnacchiosi di Paola Mastrocola, e attraversavo le stesse esperienze. Non andavo mai a scuola: non studiavo né il latino né il greco. I bombardamenti di Torino avevano costretto la mia famiglia a rifugiarsi in un'immensa casa in Liguria, con stanze altissime, scale ombrose, soffitte che accoglievano uccelliere vaste come saloni. In quel piccolo paese di mare, vivevo quasi solo. La scuola del capoluogo vicino era chiusa perché gli aerei inglesi mitragliavano le strade: i miei due migliori amici erano stati fucilati durante un rastrellamento tedesco; e qualcosa nel mio contegno teneva lontani da me i ragazzi del paese, coi quali avrei voluto giocare a pallone. Tutti i libri della mia casa di Torino erano finiti in una cucina abbandonata: identica a quella del Castello di Fratta. Mio padre li aveva sistemati a caso dentro vecchie librerie o lasciati dentro le casse. Dovunque mi avventurassi e esplorassi, l'immensa casa grondava di libri. Un avo aveva nascosto il suo Buffon, il suo Voltaire, la sua Encyclopédie dentro una cassapanca della soffitta: mia nonna aveva raccolto i romanzi della sua Bibliothèque rose, pubblicazioni audaci del Settecento, libri di spiritismo e di rivendicazioni femministe in una madia della stanza da pranzo: dal ripostiglio di cucina emergevano le storie di battaglia, gli studi di tattica e di strategia, che mio nonno militare aveva amato: nelle stanze da letto qualcuno aveva disseminato i fascicoli di un feroce romanzo antimassonico; mentre nel salotto facevano pompa di sé i volumi delle mediocri glorie letterarie della famiglia. Vivevo rinchiuso nella cucina-biblioteca, nella soffitta-biblioteca, nei ripostigli-biblioteca: in tutti gli angoli di quell'alveare ronzante di libri. Fino allora avevo letto soltanto i romanzi di Salgari. All'improvviso, mi misi a leggere tutti i libri di casa: senza scelta né discernimento, perché la mia curiosità senza forma prendeva tutte le forme. Shakespeare nella versione ottocentesca di Andrea Maffei, i libri rosa di mia nonna, i racconti delle battaglie russo-giapponesi che mio nonno compilava per la Rivista militare, le meravigliose descrizioni di uccelli nella Histoire naturelle di Buffon, le voci dell'Encyclopédie sulle arti, la Storia delle crociate affidata alla penna fantastica di Gustave Doré. Non smettevo mai. Appena sveglio, scendevo in cucina: passavo tra i libri la mattina e il pomeriggio; e la voce di mia madre mi chiamava inutilmente a cena. Quelle letture mi hanno segnato per sempre: malgrado gli anni, sono rimasto un dilettante, a casa in tutti i luoghi e in nessun luogo. La biblioteca domestica, frutto casuale della sedimentazione del tempo, figlia delle generazioni, luogo aperto all'invincibile curiosità, è la più formativa che esista. Con tutte le sue lacune e stranezze, eccita la passione del libro molto più della biblioteca scolastica, dove i libri sono scelti e registrati in ordine, e sopravvivono soltanto i trionfatori della storia e della letteratura. Finì la guerra. Giunse il 1945: abbandonai la biblioteca della casa al mare: ritornai a Torino; e, insieme ai miei compagni del D'Azeglio, cominciai a passeggiare lungo il Po, a discorrere di tutto - monarchia, repubblica, storia, filosofia, famiglia, scuola, scuola. Su tutto, avevo idee e contro-idee. Nel 1946 scrissi uno sciocchissimo articolo sul giornale scolastico. Sostenevo che bisognava smettere - per sempre - di imparare le poesie a memoria. Niente più Infinito, Chiare, fresche e dolci acque, terzo canto del Paradiso. Era una cosa meccanica: un'esperienza per parassiti; fatta apposta per quei bambini, che avevamo smesso di essere. Ero orgogliosissimo delle mie convinzioni. Qualche anno dopo, mi resi conto che avevo torto. Imparare le poesie a memoria, richiamare e rispecchiare le parole, andare avanti e indietro, sillabare e risillabare, era un gioco bellissimo. Se dicevo e ripetevo tra me: Sedendo e mirando, interminati spazi: oppure herba et fior che la gonna leggiadra ricoverse; oppure Qual per vetri trasparenti e tersi o ver per acque nitide e tranquille: - la mente variava e arricchiva il vocabolario, rafforzava la scrittura mentale, imparava a pensare e a ripensare. Oggi, sono pieno di rimpianti. Mi ricordo tutti i versi che, per arroganza giovanile, ho dimenticato, e penso a quello che avrei potuto essere e non sono. *** Malgrado la passione di Paola Mastrocola, temo che il suo libro sia troppo ottimista. In questi anni di presunte riforme, non assistiamo soltanto al disastro (certo più grave) della scuola italiana, ma a quello di tutta la scuola occidentale. In Gran Bretagna, il governo ha reso facoltativo, nel programma dei ragazzi più adulti, lo studio delle lingue straniere: questo studio - sostiene il Ministro - non serve più a niente, visto che, nel mondo, tutti letteralmente tutti, parlano e scrivono inglese. Per una volta, il ministro inglese è più sciocco di quello italiano: poiché immagina che la conoscenza di un'altra lingua sia soltanto un fatto utilitario: mentre arricchisce il lessico, la fantasia e l'intelligenza di chi la apprende. Il secondo esempio è ridicolo. Da qualche anno, gli studiosi di storia medioevale non conoscono più il latino di Gregorio di Tours o di Liutprando o di san Francesco. Anche questa conoscenza, suppongo, viene considerata inutile. Non è necessario conoscere un testo medioevale latino: bastano le traduzioni. Un evento ancora più grave minaccia l'intera società occidentale. Le fabbriche americane o inglesi o francesi o italiane non producono più automobili o scarpe in Europa: le producono in Cina o in India; mentre l'Occidente è rimasto la sede della pura attività finanziaria ed economica. Così, in pochi anni, l'Europa ha perduto una vocazione essenziale: quella di costruire una seggiola, o un tavolo, o una lavatrice, o un computer. Non sappiamo più leggere, né scrivere, né conoscere le lingue straniere, né comporre un lavoro qualsiasi. Un tempo, l'Occidente era il luogo dell'esperienza e dell'avventura. Oggi, siamo diventati quello del niente e del vuoto.

(Articolo di Pietro Citati di Repubblica) 









Postato il Mercoledì, 09 febbraio 2011 ore 14:26:40 CET di Lucio Ficara
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