Va bene, la manovra è
discutibile. Ma non vedete come già il tono del discorso pubblico s’è
alzato? Le Camere provano a emendarsi da mesi di risoluzioni sui
sotterranei di Arcore, vi pare poco? È il primo effetto dei “bravi a
scuola”. E bisogna sperare che non passi in fretta e le comprensibili
delusioni non si volgano nel ripudio dell’onesta competenza, ché già
tuona l’accusa: non serviva certo l’élite per tassare o tagliare
all’ingrosso!
Ci si è vergognati di molte cose, nell’Italia berlusconiana. Ma assai
più rivelatrici sono le cose di cui non ci si è vergognati più. In
questi anni, non ci si è vergognati più dell’ignoranza. Ministri, non
solo leghisti, rivendicavano di parlare come ci s’abbuffa all’osteria.
«Sono solo parole…», era la formula di assoluzione per ogni infamia
proclamata. Le volgarità diffuse tra gli “eletti” erano esibite come
prossimità alla “gente”, complemento di un potere forte, legittimato
dalla volontà popolare.
C’è un motto diffuso un po’ ovunque nel Mezzogiorno, a tardiva
giustificazione di ogni intemperanza: «M’è scattata la ‘gnoranza», si
dice. E forse c’è del compiacimento nella frase ma è frutto della
consapevolezza della colpa, dell’errore. La regressione compiaciuta
alla brutale semplificazione dei problemi è stato il costume recente di
una politica che ha giocato al ribasso con il popolo, coltivando il
mimetismo nei disvalori messi in atto senza pudori, confermando e
moltiplicando la base morale di un’arretratezza civile.
<+nero>I leghisti si sono solo spinti<+tondo> più degli
altri all’estrema deriva, e c’è persino un’ostinata coerenza
“antielitista” nella loro furba e isolata opposizione al governo dei
professori.
«Il popolo è così», hanno detto. E bisogna avere una considerazione del
popolo assai scarsa o troppo alta di se stessi, spacciando per migliore
intelligenza quella che è solo un’ulteriore camuffata ignoranza.
Berlusconi nei suoi lati più oscuri, che non sono solo gli affari
pruriginosi, era come dicesse: gli
italiani sono come me, solo che io sono un po’ più italiano degli altri.
Poteva perciò eccellere nel trucco della mimesi. Sono uno di voi! E loro: è «uno di noi»! Come Di
Pietro e il suo italiano strapazzato: i congiuntivi sono un lusso da
professori, l’antielitismo si accompagna sempre
all’antiintellettualismo – ricorda Luca Sofri trattando il tema, con
occhio all’America di Sarah Palin, nel suo Un grande Paese (Rizzoli,
2011). Ma il cortocircuito
demagogico, depurato degli aspetti più volgari, ha attecchito anche a
sinistra.
In una comunità politica che forse viveva il complesso di un distacco
reale dalla “gente” o il rimorso di una lunga mancata consuetudine col
“popolo vero”: gli operai che votavano Lega, e così via. Il mito del
“radicamento territoriale” è stata la coda ingenua e velenosa di questo
senso di colpa: come se la Lega, più che rappresentare legittime
ambizioni e aspettative delle comunità locali, non finisse per dar voce
grossa soprattutto a paure, egoismi e miserie particolari.
Che gli eletti siano sempre meno gli
“eletti”, è problema decisivo delle democrazie. Populismi vecchi e
nuovi avanzano non solo nella nostra provincia. E sono questioni che
hanno a che fare con la perdita di ruolo e potere reale della politica:
se la maggioranza dei deputati spesso si limita a schiacciare un tasto,
allora le carriere politiche si prestano a igieniste dentali,
segretarie fedeli, figli di senz’altri meriti e nominati con più o meno
spettacolare improvvisazione. L’uomo qualunque finalmente si è scoperto
deputato o anche vice ministro. Con l’elemento speciale di
degenerazione proprio del costume nazionale, dell’antico vizio italico
di “élites” che si formano per vincoli di sangue e
affiliazione-familismo di figli nipoti e cognati, e amanti e servitù.
Eppure, nella prima Repubblica,
intelligenza e cultura erano ancora un vanto, e nei grandi partiti per
un bel po’ primeggiarono i “bravi a scuola” (scuola di partito,
e non solo).
Il meccanismo di selezione alla rovescia delle élite si è perfezionato
solo con la seconda Repubblica, quando
l’ignoranza non è stata più tabù politico.
Nel declino dei “bravi a scuola” è il declino dell’Italia. E ci sono
aspetti strutturali: un’economia sempre meno competitiva, con scarso
contenuto di innovazione e conoscenza, sottoutilizza o spreca il
“capitale umano”, e non solo contribuisce all’impoverimento collettivo
ma scoraggia l’investimento formativo. Il declino dei tassi di
iscrizione all’università ne è la più preoccupante testimonianza, così
come il rischio che a minori aspettative di benessere, per le
nuovissime generazioni, si affianchi ora una minore quantità e peggiore
qualità di sapere.
È difficile non cogliere un disegno perverso nella devastazione di una
scuola pubblica che pure non riusciva a garantire pieno sviluppo delle
capacità e promozione dei talenti, in cui il successo formativo è
ancora largamente determinato dal retroterra socio-economico e
familiare.
Essere “bravi a scuola”, investire in
sapere e conoscenza, non serviva più in un’Italia a debole economia e
pessima burocrazia, dove i concorsi pubblici erano finiti e si
affollavano come un tempo le anticamere dei favori e delle
raccomandazioni. Altri erano i modelli di affermazione sociale, e i
“bravi a scuola” nella vita potevano essere perdenti.
Molti tendevano a diventare allora
solo secchioni, un po’ sfigati e incattiviti, che dal primo banco
guardavano gli altri con disprezzo e rancore: e non passavano il
compito. Ma agli altri ormai non importava più: nella vita avrebbe
vinto uno di loro. Non vedi la ministra?
Questa faccenda del passare i compiti o del non far copiare è cruciale,
ma un po’ complicata. A scuola i nuovi comandamenti importati
dall’America sono: «Non far copiare e denuncia chi copia». Far copiare
si presta all’accusa ingrata di falsare il merito, prediligendo certi
beneficiari o subendone il ricatto. Però è l’intenzione e il gesto del
“bravo a scuola”, se vuole far copiare, che qui conta: la volontà del
migliore di occuparsi di chi è meno bravo. Come studiare insieme il
pomeriggio, certo, ma di più. È così che il “bravo a scuola” pronto a
passare il compito può acquisire meriti agli occhi del “popolo”.
Compreso il merito di essere “eletto”. E forse in questo esempio da
Libro Cuore è il succo dell’élitismo di sinistra, già difficile cimento
filosofico di Norberto Bobbio.
Eppure, una valenza ambigua della faccenda rimane: Berlusconi non dava l’idea di uno che
lasciasse copiare? Il suo messaggio di successo, più che
“arricchitevi!”, non è stato forse proprio “copiatemi!”? Non
importa che la sua fama fosse costruita su molti favori, o che i suoi
temi – peraltro venduti a caro prezzo – fossero fasulli. Ha funzionato.
Copiatemi, somigliatemi! Ed è
più facile somigliare a un peccatore che a un santo, ci ha spiegato
Franco Cassano nella sua speciale rilettura della Leggenda del Grande
Inquisitore, raccolta ne L’umiltà del male<+tondo> (Laterza,
2011). La sua critica al “narcisismo etico” – vale anche per il
“narcisismo intellettuale” – s’è prestata all’entusiasmo strumentale di
chi combatte il “puritanesimo” in nome di un potere che sguazza nel
torbido.
Ma il discorso di Cassano tende non certo alla legittimazione di un
Cardinale di Siviglia o di un Cavaliere, ma a che le élites morali e
intellettuali non si distacchino troppo dalla condizione umana della
maggioranza, dai limiti, interessi minori e miserie della vasta zona
grigia, finendo con l’esserne ripudiate in favore della rassicurante
seduzione dei Grandi Inquisitori “democratici” del nostro tempo, che «ripetono al popolo che ha sempre
ragione» e vi si mimetizzano.
Il risvolto politico dell’umiltà del male è un gran monito alla
sinistra. Tuttavia, le sue classi dirigenti, forse elitarie, non sono
state certo vere élites in questi anni. Così come i professionisti
della politica troppo poco sono stati professionisti. E anzi,
nell’organizzazione politica del consenso, nella vita partitica, hanno
forse finito per somigliare troppo alla società così com’è, con le sue
troppe imperfezioni, e non a quella da costruire nelle migliori
intenzioni (giocate sempre al ribasso, peraltro). Troppo poco hanno contato merito e impegno,
l’essere “bravi a scuola”, prevalendovi cortigianerie e conformismi. O
la capacità di improvvisazione, la vuota riuscita comunicativa. Tanto,
sono solo parole… Ma «se non sai di che parli, cosa vuoi riformare?»,
avrebbe detto Napoleone Colajanni.
<+nero>Tornasse davvero il tempo<+tondo> dei “bravi a
scuola” sarebbe un gran bene per l’Italia post-berlusconiana. Non siano
solo secchioni, però, solerti nello svolgere il solito compito: gravare
su quelli per cui la vita è già grave, per dire. I “bravi a scuola”
diventano i migliori, per intelligenza delle cose e forza morale, solo
se si sforzano di trovare strade nuove, solo facendosi prossimi ai più
deboli: i più fragili, i più imperfetti, persino i più vili e i più
opportunisti. La buona politica è passione per la zona grigia, per
quelli che non si salvano da soli, per i banchi della terza fila. È
persino disponibilità generosa a passare i compiti, qualche volta,
all’onesto copiare come esempio ed emancipazione. È la sinistra, quella
che le lacrime di una professoressa ricordano appena vagamente.
(da Il Riformista di Giuseppe Provenzano)
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