Manuale per educatori e insegnanti di frontiera (e non)
Una storia sulla fatica di crescere: Angelo, il cattivo di turno che la famiglia non vuole più, viene spedito in una comunità di recupero, dove trova altri ragazzi mal in arnese come lui e padre Costantino, il personaggio chiave della vicenda che porta scritto nel nome la cifra del suo essere: paziente, tenace, fermo ma pieno di tenerezza. Manuale per educatori di frontiera e non.
Nato anche dall’esperienza presso una comunità alloggio per minori dell’autore, che si è accostato alla psicologia dell’età evolutiva ed alla scrittura come strumento per comunicare emozioni e per narrare il disagio, Ero cattivo (Edizioni San Paolo) di Antonio Ferrara racconta la storia di un ragazzino difficile, costretto a trascorre un periodo di recupero in una comunità di campagna.
Una faccia da schiaffi, ecco chi è Angelo: mai un pensiero giudizioso, un gesto da ragazzo normale, mai un attimo di tregua. Duro, cinico, violento, facile immaginare per lui un destino segnato. Di quelli che nella vita non combinano niente di buono, in fondo si dice che se la sono cercata. E Angelo, da buon cattivo, è uno che sa la cerca da sempre, da molto tempo prima di mandare al creatore, facendole prendere un colpo al cuore, la Balducci, professoressa d’inglese. Gran brutta storia.
Ha corso un bel rischio Antonio Ferrara, a prendere uno come Angelo, ragazzino difficile, figlio di un ambiente degradato, metterlo tra le pagine di un romanzo e farne il protagonista di un racconto di vita tormentata che poteva scivolare nel pedagogico, sfiorare il buonismo o sprofondare nell’edificante. Se non fosse che Ferrara i tipi come Angelo li ha conosciuti da vicino. Sette anni da educatore di ragazzi difficili in una comunità alloggio a Napoli hanno lasciato segni che non si cancellano e innescato nel tempo la voglia di raccontare quel disagio e provare a dar voce a un mondo e a un dolore che non hanno voce, immaginando però spiragli di speranza.
all’occhiello alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna - possiede la durezza del reale e la leggerezza della letteratura. È una storia sulla fatica di crescere: Angelo, il cattivo di turno che la famiglia non vuole più, viene spedito in una comunità di recupero, dove trova altri ragazzi mal in arnese come lui e padre Costantino, il personaggio chiave della vicenda che porta scritto nel nome la cifra del suo essere: paziente, tenace, fermo ma pieno di tenerezza.
È l’educatore che resiste con ostinazione alle provocazioni dei ragazzi e sa sdrammatizzarle con ironia, l’uomo che crede ciecamente nel Bene e nella possibilità delle persone di cambiare in meglio. «In Costantino, personaggio reso quasi esemplare, paradossale e persino un po’ sopra le righe - racconta Antonio Ferrara - c’è una parte di me e della mia esperienza. È lui a incarnare il pensiero di fondo del romanzo.
Quell’idea che si ritrova nell’ultima riga di una lunga frase di Danilo Dolci che ho voluto come epigrafe: ciascuno cresce solo se sognato. Significa che l’educatore in gamba non può appiattire i ragazzi sul presente. Guai immaginarli fermi e immutabili nel tempo». Padre Costantino ha la passione dei ritratti. Fissa con dolcezza i visi arrabbiati dei ragazzi e li disegna come saranno da grandi, perché li vede in prospettiva. A chi commenta Non mi somiglia, risponde non ancora.
«La chiamano profezia educativa, significa provare a immaginare un futuro diverso, non scontato. Credendoci. È quella strana alchimia per cui a furia di contemplarla finisce che l’utopia si autoavvera. Anch’io l’ho sperimentato». E qui Antonio Ferrara autore-educatore e pure illustratore accenna a un tratto di biografia . «Per un anno intero la professoressa d’italiano delle medie mi ha lasciato illustrare il compito in classe nella metà destra del foglio protocollo.
Mi lasciava fare nonostante le prese in giro e le proteste dei compagni. Venticinque anni prima che fosse chiaro a me, la professoressa Scotti aveva capito. Mi aveva visto in prospettiva». Come dire che se qualcuno crede in te, è convinto che puoi farcela, prima o poi ce la farai. Nessuno ha soluzioni pronte all’uso ma può aiutare il prossimo a prendere in mano la propria vita. Nel racconto anche un cane ha il suo perché: è Selvaggio, il meticcio mordace e indisciplinato, che Angelo s’impegna con alti e bassi a educare.
«Anche Selvaggio è un espediente, la metafora della responsabilità che un educatore deve ribaltare sui ragazzi, perché è a loro che tocca il compito di educare la propria parte selvaggia. Come Angelo, anche il cane non ha bisogno di punizioni ma di qualcuno che accettandolo gli mostri un punto di vista diverso su quel che combina. In maniera lieve - continua Ferrara - faccio sospettare che prendendosi cura del cane quel ragazzo sta educando se stesso». In educazione, la violenza non serve; fare muro contro muro è una strategia perdente. La vera scommessa è l’empatia, parola chiave che Antonio Ferrara ha nel cuore, perché nella sua vita di scrittore e di educatore ne ha sentito la forza travolgente. Troviamo citato Wim Wenders e i suoi angeli invisibili che accanto agli uomini ne leggono i pensieri, i sogni e i desideri e le paure, e a furia di ascoltarli hanno voglia anche loro di avere quegli stessi desideri e sogni. «Mettersi nei panni degli altri è un modo per capire; come quegli angeli bisogna imparare a leggere nella testa dei ragazzi. Perché così, spiazzandoli, si può aiutarli a riconoscere i loro pensieri, e a offrire contemporaneamente anche le parole così difficili per esprimerli». In fondo questo anche il mestiere dello scrittore. «L’autore in fondo nomina le tue emozioni e non parla solo delle sue, e lo fa scegliendo una lingua così articolata e levigata, frutto di un grande sforzo, che alla fine suona autentica.
E allora sì che chi legge riesce a stupirsi, a piangere, a ridere e a soffrire, a entrare con tutto se stesso dentro le storie, sentendole anche proprie. Comprese quelle cosiddette più dure. Che - conclude Ferrara - non bisogna temere di proporre ai più giovani. Perché lì ci sono le chiavi e le parole con cui i ragazzi possono affrontare i problemi e i dolori che comunque attraversano, troppo spesso in solitudine». Ad Angelo piace come parla Costantino, che dice sempre, non dice mai se. Perché questo lo fa sentire forte e capace, perché comprende che lì c’è una tenerezza che indurisce e fa crescere. E fa immaginare che alla fine chi perde vince.
Pur non risparmiando al lettore situazioni dolorose, Antonio Ferrara sembra prediligere un registro più lieve, ironico e spesso divertente. Anzi, estremizzando, fino a sfiorare il paradossale, le condizioni dei ragazzi ospiti della comunità – dove spicca il temperamento equilibrato ed artistico di Padre Costantino –, l’autore riesce a trasmettere i sentimenti contraddittori del protagonista, il suo turbamento interiore e le difficoltà che incontra nel superare le asperità del proprio carattere, così che il cambiamento di Angelo si possa concretizzare passando attraverso diversi stadi di ribellione, ma anche una graduale presa di coscienza: «Ero stufo di essere cattivo, di essere incapace, di essere me. Volevo essere qualcun altro, adesso, uno diverso e capace».
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