Il libro di
due sociologi analizza gli effetti della mobilità globale sulla nostra
personalità. Non siamo mai stati tanto in movimento quanto oggi. «Copriamo in media ogni giorno mille volte
la distanza che percorrevamo nell’Ottocento. Nel 1800 un americano si
spostava in media di 50 metri al giorno, oggi percorre 50 chilometri. E
per comprendere l’impatto di questa rivoluzione non bastano più le
scienze sociali così come le conosciamo: serve una sociologia mobile».
È la tesi che John Urry, sociologo dell’inglese Lancaster University
espone nel saggio Vite mobili (Il Mulino, pp. 266, euro 21), scritto
insieme a Anthony Elliott, sociologo della Flinders University, in
Australia.
Tutto questo muoversi ha cambiato profondamente la società, dice Urry. «Questa non si fonda più su relazioni tra individui che si trovano fisicamente vicini: la tecnologia ha frantumato tutti i confini territoriali. La mobilità è oggi il paradigma della nostra esistenza: le nostre identità non sono più radicate in un luogo che dà loro senso, ma giostrano per il mondo senza limiti e intessono rapporti che il movimento trasforma subito in legami, intimità a distanza come quelle permesse da email, sms e skype». Serve quindi un approccio che studi il frazionarsi e il riunirsi dei gruppi umani, sia fisicamente (come i flash mob che ogni tanto ci deliziano nelle nostre città, e che non potrebbero esistere senza internet e i cellulari) sia virtualmente, secondo le modalità della rete.
Tenendo presente che l’ipermobilità, spiegano gli esperti, ha dei costi: «La nuova intimità mobile è certo adatta all’economia globale, ma proprio quest’ultima, con l’estrema produttività che richiede all’individuo, ne svuota il contenuto emotivo» commenta Urry, secondo cui anche la nostra individualità è diventata portatile. «Non tanto e non solo per la precarietà di un lavoro sempre più globale e delocalizzato, ma soprattutto perché la personalità si costruisce sempre di più attraverso quello che definisco l’immagazzinamento degli affetti in dispositivi come lettori mp3, tablet e smartphone, che sono ormai delle mobilità miniaturizzate: affidando i miei ricordi e i miei affetti ai social network, li uso come un’estensione della mia personalità, per di più ubiqua, perché facilmente evocabile, ovunque esista una connessione internet. L’individuo mobile è sempre impegnato in una sorta di operazione bancaria: deposita affetti e stati d’animo nei suoi gadget tecnologici e li preleva quando gli servono». «E la portabilità dei media ridisegna i nostri ambienti»sottolinea Urry, «oggi ai panorami sovrapponiamo i “tecnorami” o “mediarami”, ossia quegli insiemi di immagini e suoni che ci seguono ovunque e riducono la nostra ansia: dallo schermo del navigatore satellitare ai film che teniamo nei nostri lettori portatili, a YouTube».
Il Venerdì di Repubblica
Tutto questo muoversi ha cambiato profondamente la società, dice Urry. «Questa non si fonda più su relazioni tra individui che si trovano fisicamente vicini: la tecnologia ha frantumato tutti i confini territoriali. La mobilità è oggi il paradigma della nostra esistenza: le nostre identità non sono più radicate in un luogo che dà loro senso, ma giostrano per il mondo senza limiti e intessono rapporti che il movimento trasforma subito in legami, intimità a distanza come quelle permesse da email, sms e skype». Serve quindi un approccio che studi il frazionarsi e il riunirsi dei gruppi umani, sia fisicamente (come i flash mob che ogni tanto ci deliziano nelle nostre città, e che non potrebbero esistere senza internet e i cellulari) sia virtualmente, secondo le modalità della rete.
Tenendo presente che l’ipermobilità, spiegano gli esperti, ha dei costi: «La nuova intimità mobile è certo adatta all’economia globale, ma proprio quest’ultima, con l’estrema produttività che richiede all’individuo, ne svuota il contenuto emotivo» commenta Urry, secondo cui anche la nostra individualità è diventata portatile. «Non tanto e non solo per la precarietà di un lavoro sempre più globale e delocalizzato, ma soprattutto perché la personalità si costruisce sempre di più attraverso quello che definisco l’immagazzinamento degli affetti in dispositivi come lettori mp3, tablet e smartphone, che sono ormai delle mobilità miniaturizzate: affidando i miei ricordi e i miei affetti ai social network, li uso come un’estensione della mia personalità, per di più ubiqua, perché facilmente evocabile, ovunque esista una connessione internet. L’individuo mobile è sempre impegnato in una sorta di operazione bancaria: deposita affetti e stati d’animo nei suoi gadget tecnologici e li preleva quando gli servono». «E la portabilità dei media ridisegna i nostri ambienti»sottolinea Urry, «oggi ai panorami sovrapponiamo i “tecnorami” o “mediarami”, ossia quegli insiemi di immagini e suoni che ci seguono ovunque e riducono la nostra ansia: dallo schermo del navigatore satellitare ai film che teniamo nei nostri lettori portatili, a YouTube».
Il Venerdì di Repubblica