
E così Garrone, dopo le crudezze di "Dogman", mi ha ridonato la poesia, quella del racconto e della fiaba, dell'onirico e del fantasioso (linea saggiata con "Il racconto dei racconti", che pure mi parve più estemporaneo, meno 'necessario': pronto a ricredermi, ritrovandolo...).
Il suo Pinocchio è di quelli che restano in virtù di linguaggio: di là da un 'principio di piacere' (Freud mi perdoni l'abuso) che resta invece sin troppo legato a ben difendibili questioni di gusto. Finalmente, è burattino tra burattini (e più filologicamente sarebbe, tra marionette vere e proprie, marionetta senza fili), tra uomini e donne, tra animali e creature degl'interspazi, in un intreccio policromo che fa della metamorfosi il "Grundthema", ovvero il motivo strutturante dell'opera. Che è l'Italia povera e il suo sogno malinconico di riscatto, delle antiche facezie toscane che non hanno più campo e si moltiplicano e disperdono nella diffusa dialettofonia nazionale. L'"umìle Italia" slargata a barocche dismisure, eppure tenerissime, di Federico Fellini, ricondotta alla propria umiltà (vicinanza alla terra, grazia dei derelitti, linguaggio povero) da Pier Paolo Pasolini. Ecco perché l'episodio/chiave resta, per me, un Paese dei Balocchi declassato a sogno dei poveri, dove non può esserci fantasmagoria e deve invece trionfare, nella crudeltà dell'ingiustizia, l'innocenza animale: l'asino di Apuleio, di Verga, di Bresson.
Ed è (anche) per questo che l'umilissimo Geppetto, maschera di vecchiezza e di persistente candore, si affida per sempre a un Benigni per sempre stralunato. Ed ecco perché offro, oggi, questo mio pensare al mio paese, che "me duele" non meno di quanto la Spagna dolesse a un Miguel de Unamuno...
Fernando Gioviale