La punteggiatura a scuola – Quando e come correggere gli errori
di Luca Serianni*
Tra le varie abilità misurate dall’insegnamento scolastico, la corretta interpunzione non è certo quella ritenuta più importante. È innegabile che lesioni testuali (frasi sconnesse o illogiche) o specificamente grammaticali (che io vadi, noi vidimo) e lessicali-semantiche (esimere più del dovuto ‘esigere’) attirino prioritariamente l’attenzione degli insegnanti. Ed è giusto che sia così. Ma perché una virgola sbagliata è generalmente considerata di scarsa o nessuna importanza, a differenza di un po’ in cui l’apostrofo sia sostituito dall’accento?
Due motivi per non correggere sempre
In entrambi i casi siamo di fronte a convenzioni grafiche (è impossibile sbagliare interpunzioni, apostrofi o accenti parlando); e tutto sommato l’interpunzione, che governa i rapporti tra le parole nella frase e tra le frasi nel periodo, avrebbe buoni motivi per vedersi riconosciuta una dignità maggiore. Se questo non avviene, è a mio vedere per due opinioni prevalenti:
1. un compito in classe non è un campo di battaglia, e l’accumulo di correzioni è poco utile (oltre che molto faticoso per il correttore): meglio dare spicco alle lesioni più rilevanti, confidando che le mende interpuntorie siano sanabili semplicemente con una dose d’attenzione in più da parte dell’alunno;
2. a differenza di altri settori della lingua, l’interpunzione non è codificata rigidamente, ma dipende in buona parte dallo stile o dal gusto individuali.
Due motivi per correggere sempre
Ma nessuno dei due argomenti appare davvero convincente. Se il fine da raggiungere è quello di una scrittura chiara ed efficace (diciamo quella di un cronista, cioè di chi ha un rapporto professionale con la pagina scritta, anche se non certo creativa), occorre mettere in campo tutti i mezzi che appaiono idonei allo scopo. E un articolo di giornale è impeccabile dal punto di vista dell’interpunzione: mai una virgola fuori posto, e spesso − più spesso di quel che si creda − ricorso anche a un segno d’interpunzione intermedia, che è diventato sconosciuto per gli studenti di ogni ordine e grado: il punto e virgola.
Né è vero che l’interpunzione sia il dominio della libera soggettività: alcune regole sono ben codificate, alcune dalle elementari (niente virgola tra soggetto e predicato), altre nell’attività dei revisori editoriali (sempre uno spazio dopo il segno interpuntivo, mai un segno interpuntivo prima di una parentesi).
La virgola tuttofare
Altre volte non c’è una tradizione teorica, ma la prassi degli scriventi esperti è consolidata. Leggiamo il brano di un riassunto (di studente universitario; fonte: L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 128):
La donna confidò ad un’amica la sua relazione con l’angelo Gabriele, questa fingendo di crederle raccontò la novella ad alcune donne ecc.
La virgola prima di questa è sbagliata: sarebbe stato necessario un segno d’interpunzione più forte (un punto e virgola o un punto fermo), per segnalare il cambio tematico nella progressione del racconto, evidente anche per il mutamento dei soggetti.
L’accapo, un super-punto
Può rientrare latamente nell’interpunzione anche l’accapo. Lo potremmo definire un super-punto, che marca il passaggio a un altro ordine d’idee. Questa volta la scelta di andare a capo è effettivamente elastica, ma è importante mantenere una gerarchia tra i vari capoversi: un ottimo esercizio è quello consistente nel proporre un brano in cui gli accapo sono stati soppressi (ancora una volta si presterebbe bene l’editoriale di un quotidiano), indicando solo il numero di quelli presenti nel testo originale e chiedendo all’alunno di ripristinarli. Non è detto che si debba esattamente ricalcare l’assetto originario, ma in ogni modo l’esercizio è un’ottima occasione per prendere coscienza del problema; in ultima analisi, per riflettere alle varie operazioni da mettere in atto per arrivare a un risultato testualmente soddisfacente.
*Luca Serianni insegna Storia della lingua italiana nell’Università degli studi di Roma “Sapienza”; è socio dell’Accademia della Crusca, dei Lincei, dell’Arcadia, consigliere centrale della Società Dante Alighieri, dottore h.c. dell’Università di Valladolid e direttore delle riviste «Studi linguistici italiani» e «Studi di lessicografia italiana». Si è occupato di vari momenti e aspetti di storia linguistica italiana, dal Medioevo (Testi pratesi, 1977) all’età contemporanea (Italiani scritti, 20072), dalla lingua della poesia (Introduzione alla lingua poetica italiana, 20092) al linguaggio della medicina (Un treno di sintomi, 2005). Con Pietro Trifone ha curato una Storia della lingua italiana a più mani (1993-1994), redigendo il capitolo sulla prosa letteraria. Molto nota una sua Grammatica italiana, apparsa nel 1988 e più volte ristampata; a questo filone di ricerca appartiene anche uno degli ultimi volumi finora apparsi, Prima lezione di grammatica (2006). Ultimo in libreria in ordine di tempo è il volume Scritti sui banchi (2009), dedicato alla prassi correttoria degli insegnanti delle superiori sui cosiddetti “temi” di italiano e scritto a quattro mani con Giuseppe Benedetti.
di Luca Serianni*
Tra le varie abilità misurate dall’insegnamento scolastico, la corretta interpunzione non è certo quella ritenuta più importante. È innegabile che lesioni testuali (frasi sconnesse o illogiche) o specificamente grammaticali (che io vadi, noi vidimo) e lessicali-semantiche (esimere più del dovuto ‘esigere’) attirino prioritariamente l’attenzione degli insegnanti. Ed è giusto che sia così. Ma perché una virgola sbagliata è generalmente considerata di scarsa o nessuna importanza, a differenza di un po’ in cui l’apostrofo sia sostituito dall’accento?
Due motivi per non correggere sempre
In entrambi i casi siamo di fronte a convenzioni grafiche (è impossibile sbagliare interpunzioni, apostrofi o accenti parlando); e tutto sommato l’interpunzione, che governa i rapporti tra le parole nella frase e tra le frasi nel periodo, avrebbe buoni motivi per vedersi riconosciuta una dignità maggiore. Se questo non avviene, è a mio vedere per due opinioni prevalenti:
1. un compito in classe non è un campo di battaglia, e l’accumulo di correzioni è poco utile (oltre che molto faticoso per il correttore): meglio dare spicco alle lesioni più rilevanti, confidando che le mende interpuntorie siano sanabili semplicemente con una dose d’attenzione in più da parte dell’alunno;
2. a differenza di altri settori della lingua, l’interpunzione non è codificata rigidamente, ma dipende in buona parte dallo stile o dal gusto individuali.
Due motivi per correggere sempre
Ma nessuno dei due argomenti appare davvero convincente. Se il fine da raggiungere è quello di una scrittura chiara ed efficace (diciamo quella di un cronista, cioè di chi ha un rapporto professionale con la pagina scritta, anche se non certo creativa), occorre mettere in campo tutti i mezzi che appaiono idonei allo scopo. E un articolo di giornale è impeccabile dal punto di vista dell’interpunzione: mai una virgola fuori posto, e spesso − più spesso di quel che si creda − ricorso anche a un segno d’interpunzione intermedia, che è diventato sconosciuto per gli studenti di ogni ordine e grado: il punto e virgola.
Né è vero che l’interpunzione sia il dominio della libera soggettività: alcune regole sono ben codificate, alcune dalle elementari (niente virgola tra soggetto e predicato), altre nell’attività dei revisori editoriali (sempre uno spazio dopo il segno interpuntivo, mai un segno interpuntivo prima di una parentesi).
La virgola tuttofare
Altre volte non c’è una tradizione teorica, ma la prassi degli scriventi esperti è consolidata. Leggiamo il brano di un riassunto (di studente universitario; fonte: L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 128):
La donna confidò ad un’amica la sua relazione con l’angelo Gabriele, questa fingendo di crederle raccontò la novella ad alcune donne ecc.
La virgola prima di questa è sbagliata: sarebbe stato necessario un segno d’interpunzione più forte (un punto e virgola o un punto fermo), per segnalare il cambio tematico nella progressione del racconto, evidente anche per il mutamento dei soggetti.
L’accapo, un super-punto
Può rientrare latamente nell’interpunzione anche l’accapo. Lo potremmo definire un super-punto, che marca il passaggio a un altro ordine d’idee. Questa volta la scelta di andare a capo è effettivamente elastica, ma è importante mantenere una gerarchia tra i vari capoversi: un ottimo esercizio è quello consistente nel proporre un brano in cui gli accapo sono stati soppressi (ancora una volta si presterebbe bene l’editoriale di un quotidiano), indicando solo il numero di quelli presenti nel testo originale e chiedendo all’alunno di ripristinarli. Non è detto che si debba esattamente ricalcare l’assetto originario, ma in ogni modo l’esercizio è un’ottima occasione per prendere coscienza del problema; in ultima analisi, per riflettere alle varie operazioni da mettere in atto per arrivare a un risultato testualmente soddisfacente.
*Luca Serianni insegna Storia della lingua italiana nell’Università degli studi di Roma “Sapienza”; è socio dell’Accademia della Crusca, dei Lincei, dell’Arcadia, consigliere centrale della Società Dante Alighieri, dottore h.c. dell’Università di Valladolid e direttore delle riviste «Studi linguistici italiani» e «Studi di lessicografia italiana». Si è occupato di vari momenti e aspetti di storia linguistica italiana, dal Medioevo (Testi pratesi, 1977) all’età contemporanea (Italiani scritti, 20072), dalla lingua della poesia (Introduzione alla lingua poetica italiana, 20092) al linguaggio della medicina (Un treno di sintomi, 2005). Con Pietro Trifone ha curato una Storia della lingua italiana a più mani (1993-1994), redigendo il capitolo sulla prosa letteraria. Molto nota una sua Grammatica italiana, apparsa nel 1988 e più volte ristampata; a questo filone di ricerca appartiene anche uno degli ultimi volumi finora apparsi, Prima lezione di grammatica (2006). Ultimo in libreria in ordine di tempo è il volume Scritti sui banchi (2009), dedicato alla prassi correttoria degli insegnanti delle superiori sui cosiddetti “temi” di italiano e scritto a quattro mani con Giuseppe Benedetti.