Ai tempi della Dc la preoccupazione della
nascente Lega era che il parlamento fosse influenzato dalla cultura
meridionalistica, espressa dagli intellettuali formatesi tra le
spire del crocianesimo, con danno delle idealità cui si ispiravano gli
amici di Umberto Bossi. Ai tempi del
Pdl di Berlusconi la dilagante Lega continua a temere e questa volta
che il nord possa venire colonizzato dai professori sudisti.
Pasquale Almirante
p.almirante@aetnanet.org
Ai tempi della Dc la preoccupazione della nascente Lega era che il
parlamento fosse influenzato dalla cultura meridionalistica, espressa
dagli intellettuali formatesi tra le spire del crocianesimo, con danno
delle idealità cui si ispiravano gli amici di Umberto Bossi. Ai tempi
del Pdl di Berlusconi la dilagante Lega continua a temere e questa
volta che il nord possa venire colonizzato dai professori sudisti che,
siccome non sanno nulla della polenta né delle tradizioni dei rituali
delle ampolle, possano perfino rubare il posto ai loro colleghi di
celtica razza. Diciamo “razza” con cognizione di causa perché ormai
ogni argine al pudore si è rotto e dalle parti del Friuli e del
Piemonte i neo governatori incominciano a promettere che faranno leggi
regionali per impedire ai professori del sud di insegnare nelle loro
scuole, dove si deve conservare la purezza originaria longobarda.
Come è noto il reclutamento nelle scuole avviene sulla base del
punteggio che è valido in tutto il territorio nazionale; con la
proposta della Lega, già in discussione in Friuli come manifesto della
conferma delle promesse elettorali, si vorrebbe dare un punteggio
aggiuntivo ai residenti cosicché un supplente catanese, che volesse
fare domanda di insegnamento da quelle parti, si vedrebbe tagliato il
passo. E guarda caso la richiesta leghista si è scaricata subito dopo
un incontro tra i precari della Sicilia col direttore dell’Ufficio
scolastico regionale che li invitava, se non volessero rimanere a
spasso e senza un centesimo, di inoltrare domanda di supplenza proprio
al Nord dove le disponibilità sono molto più larghe. “Se il
Friuli Venezia Giulia fosse una regione seria si dovrebbe fare la
regionalizzazione dei posti pubblici”, dice il capogruppo della Lega
Nord, Danilo Narduzzi, che chiede pure: “Perché dobbiamo diventare la
regione dove si dà lavoro alla gente che viene da fuori? Noi vogliamo
che ci sia una pressione politica per un indirizzo politico” in modo da
mantenere “gli insegnanti della nostra regione per i ragazzi della
nostra regione”. Questo è parlare serio, da gente ben dotata di idee,
poche ma chiare. Un tantino più in alto, ma confinante, il Trentino,
avvalendosi delle sue prerogative sancite dallo statuto autonomo, come
quello della Sicilia, ha rimandato al mittente la cosiddetta riforma
Gelmini per il semplice fatto che non essendo stata ancora pubblicata
in Gazzetta ufficiale, e avendo la Regione altri ulteriori sei mesi di
tempo per approvarla, non gradisce approssimazioni, per cui la adotterà
a partire dal 2011/12. In Sicilia pensare in questo modo è blasfemia
pura, nonostante lo smodato numero di insegnanti che, a causa proprio
del riordino della istruzione, rimarranno a spasso con danno anche
degli alunni dei tecnici e dei professionali soprattutto. Un
capovolgimento dunque delle priorità nazionali e un egoismo
regionalistico innescato dalla Lega alla quale nessuno si oppone,
giudicandola un prodotto di colore locale, uno sfogo infantile, un
ritrovato etnico per farsi pubblicità come i fichidindia e il carretto
nelle cartoline di Palermo. E invece non è così, perché se parte il
federalismo scolastico questa richiesta dei governatori leghisti sarà
realtà e i nostri docenti, ma anche i presidi, dovranno nuotare
all’interno della propria regione per il posto e se decidessero, magari
per altra avventura, di spostarsi al Nord, con ogni probabilità
dovranno sostenere un esame di cultura e lingua padana prima di
accedere, fermo restando lo scoglio della residenza stabile.
L’opposizione ha preso le distanze, ma è solo una minoranza di poco
peso ormai, benché di fronte a un’altra manovra altrettanto pesante per
l’idea di Nazione che finora abbiamo avuto, ha reagito prontamente,
costringendo la Gelmini, e chi soffia per lei, a riportare il periodo
della Resistenza contro il nazifascismo nei programmi ministeriali di
storia. Da un generico“percorso verso l’Italia repubblicana”,
come era stato scritto in prima istanza nelle indicazioni di storia per
i licei, si è passati a: “L’Italia dal Fascismo alla Resistenza e le
tappe di costruzione della democrazia repubblicana”. Qualche
osservatore parla di una “diffusione sempre più subdola dei disvalori
berlusconiani che ha seminato il diserbante delle ideologie,
sollecitato il rifugio negli egoismi rassicuranti delle identità
minime, il locale e le appartenenze di gruppo”, mentre anche i
festeggiamenti per il 150^ della Unità d’Italia sono snobbati e perfino
ridicolizzati da sedicenti regionalisti, senza suscitare allarme però
nella destra storica, quella della Patria sopra tutti.
E in questo incrocio grottesco cosa deve fare la scuola? Su quale
sponda aggrapparsi? Sicuramente si è capito un fatto importante e cioè
che la cultura è pericolosa, perché può indurre perfino a ragionare e
quindi a capire e scegliere. Oscurarla, deprimerla, confonderla,
impoverirla può servire tuttavia a proporre come modelli vincenti, non
più Mazzini o Enrico Toti, ma il tronista di turno o la velina con le
minne di fuori.
PASQUALE ALMIRANTE