“A chi
appartiene?”. Con questa domanda, nella mia città, ci si
informa sull’identità di uno sconosciuto. E così in campo educativo, in
famiglia e a scuola, si dovrebbe mirare a questo: a stimolare nei
ragazzi la
scoperta di appartenere, per prendere davvero coscienza di chi sono. I
ragazzi
sono disposti ad affrontare la realtà solo quando interiorizzano la
loro
unicità e io – insegnante ¬ esisto perché vedano, nel mio corpo, che la
loro
unicità è per me un dono e una responsabilità. Le loro vite mi sono
affidate e
donate. Solo così il bambino o l’adolescente assumono in sé la propria
immagine
come qualcuno che è voluto, che appartiene.
Ma
come fa un genitore, come fa un insegnante a rendere tutto
questo possibile, percepibile? Così racconta una delle più grandi
pianiste
russe del Novecento, nonché insegnante: «Nel mio gruppo c’era un
“attaccabrighe”, un ragazzino di otto-nove anni praticamente senza
famiglia,
senza amare o essere amato. Si chiamava Akinfa; era indisponente,
stuzzicava
tutti, prendeva in giro i bambini ebrei, si azzuffava e così via. Noi
tutti
cercavamo di esortarlo con la parola e con l’esempio. Ma una volta
Akinfa passò
tutti i limiti: picchiò uno dei compagni, prese a male parole gli
adulti,
commise un furtarello. Fu “decretata” la sua espulsione, ma quando
venne il
momento di eseguire la “condanna” – il momento del distacco – io, non
so come,
scoppiai a piangere».
È
a questo punto che avviene la “seconda nascita” di Akinfa:
«Scoppiò a piangere anche lui; chiese perdono tutti, rese la refurtiva
e da
quel momento mi seguiva sempre ovunque, nel campo, come un fedele
cagnolino; e
spiegava a tutti che “in vita sua” (!) non aveva mai visto una maestra
che
piangesse per il suo alunno: che piangesse, per dirla con le sue
parole,
“sull’anima e sulla vita” di un monello. Proprio questo era il senso
del suo
stupore e del desiderio di rimettersi sulla buona strada».
Akinfa
cambia vita, una seconda nascita, grazie alla pietas
della sua insegnante e la pietas-pietà,
da Omero
a Dante, passando per Virgilio, è la manifestazione di questa
appartenenza. La
maestra piange per il suo ragazzo, che solo a quel punto percepisce
come la sua
vita sia amata, voluta, accolta. Da quel momento Akinfa sa di
appartenere a
lei, la segue ovunque, cambia perché è cambiato. Una maestra piange per
il suo
alunno e lo salva, più che col buon esempio e le parole. Manifesta che
quel
ragazzo è un dono, le appartiene, ne è responsabile.
Ma
non a tutti sarà dato piangere per i propri alunni. Come può
questo pianto manifestarsi senza lacrime e avere gli stessi effetti?
Come può
uno studente sentire la pietas, l’appartenenza e quindi mettere in
gioco la sua
vita come una vita bella, che merita di essere e amare, perché qualcuno
l’ha
amata prima? Il segreto è il tempo. Donare tempo. Lo vedo con i miei
alunni.
Una mail, una chiacchierata a tu per tu all’intervallo, un caffè al bar
della
scuola, un progetto condiviso, una mostra, un’uscita a teatro… Tutto il
tempo che
riesco a donare loro è quel pianto, è quella pietas di chi appartiene:
tu mi
appartieni, sei dono. Tutto il tempo che i miei genitori e maestri mi
hanno
regalato, ha reso bella la mia vita e fortissima la consapevolezza che
valga la
pena spenderla per amare.
Non
sempre abbiamo il coraggio di ritagliare i nostri impegni di
lavoro, la nostra auto-affermazione con i suoi ritmi asfissianti, i
nostri
spazi, per regalarli ai nostri studenti e ai nostri figli. Ma forse
questa è
l’unica cosa che possiamo veramente donare agli altri, perché prendere
il
proprio tempo e regalarlo è amare, educare, liberare. Me lo aveva già
detto
tempo fa qualcuno: “Noi amiamo, perché qualcuno ci ha amati per primo”.
E
continuo a dimenticarmelo. Se io non appartengo, non mi appartengo e
nessuno mi
appartiene. Alessandro D’Avenia