La Chiesa italiana è chiamata a dare il suo contributo per il
risanamento del deficit nazionale. In una fase di tagli pesantissimi
generalizzati, chi è percettore di un flusso ingente di finanziamenti
pubblici non può sentirsi “al di sopra delle parti”. Partecipare è un
dovere morale.
Nei tempi antichi, in casi d’invasione e di
assedi, si fondevano i calici e gli ori dei templi per finanziare la
difesa della città o riscattare i prigionieri. Altrettanto vale oggi,
quando il nemico – più insidioso e distruttivo – è annidato nelle
finanze pubbliche e può essere debellato soltanto se veramente tutti, e
non solo le famiglie a reddito fisso, partecipano ai sacrifici.
Sbaglierebbe la gerarchia ecclesiastica a scrollarsi di dosso la
richiesta, etichettandola come anticlericale o animata da spirito
antireligioso. È vero il contrario. Il dovere di mettere mano alle
proprie disponibilità nasce (dovrebbe nascere) da una considerazione
anche religiosa del “bene comune” e dello stesso destino dello stato
sociale. In Grecia la Chiesa ortodossa sta valutando, con il governo,
di sostenere il bilancio pubblico vendendo parte del suo patrimonio
immobiliare. Può la Chiesa italiana rifiutarsi di affrontare nella fase
attuale la questione dell’8 per mille, che pesa sul bilancio dello
stato per oltre mille milioni?
Dirò subito che nell’ottica di uno stato sociale e democratico, che
favorisce lo sviluppo della personalità dei cittadini nella dimensione
culturale, valoriale e associativa, anche sostenere l’espressione
comunitaria di una fede e favorire la costruzione di una chiesa, una
sinagoga o una moschea è un elemento di civiltà.
Il fatto è che in Italia il sistema dell’8 per mille, che concede
democraticamente a qualsiasi cittadino di devolvere una quota
dell’Irpef alla confessione religiosa di sua scelta o allo Stato per
fini umanitari, è nato sulle basi di un imbroglio. È evidente che il
cittadino, che non vuole usufruire della facoltà di devolvere la sua
quota a un destinatario preciso, intende lasciare alla piena
disponibilità dello Stato la sua Irpef. Così succede in Spagna, che
pure ha copiato concettualmente il sistema italiano. La truffa-Tremonti
avvenuta nel 1985, è che le somme non toccate – le quote di Irpef dei
cittadini che non si sono “espressi” – vengono nuovamente suddivise in
base ai “voti” di quanti hanno manifestato la loro preferenza nella
dichiarazione dei redditi. Con il risultato che le “preferenze” per le
Chiesa cattolica, pari a circa un terzo delle dichiarazioni, attraverso
il riconteggio arrivano a qualcosa come l’87 per cento e in tal modo
l’istituzione ecclesiastica giunge a incassare circa un miliardo di
euro.
L’irrazionalità di questo meccanismo è aggravata da molteplici fattori.
Anzitutto il gettito dell’8 per mille è aumentato esponenzialmente a un
ritmo tale che ha non più nessuna relazione con la struttura della
Chiesa cattolica. Il numero dei sacerdoti in Italia va infatti
sistematicamente calando. Nel 1978, al momento dell’elezione di papa
Wojtyla, erano oltre quarantunmila, oggi sono scesi a trentaduemila e
nel 2013 dovrebbero ridursi a ventottomila secondo uno studio del
sociologo cattolico Diotallevi (insieme a Stefano Molina). Insomma la
Chiesa italiana più si riduce e più incassa in finanziamenti statali.
La seconda anomalia è rappresentata dal fatto che il governo Berlusconi
ha rallentato l’accesso al sistema dell’8 per mille di altre
confessioni in modo da non scalfire la parte del leone che arriva alla
Cei. Da anni l’Unione buddista, i Testimoni di Geova, la Chiesa di Gesù
Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, l’Unione induista, l’Esarcato
ortodosso e la Chiesa apostolica – che pure hanno firmato le intese con
lo Stato italiano – attendono la ratifica del parlamento. Solo per le
ultime due è arrivata finora l’approvazione del Senato, ma manca quella
della Camera. L’“inerzia” non è casuale. Ogni “voto” a una nuova
confessione, toglie fondi alla Chiesa cattolica. È bastato negli anni
scorsi che ci fosse un piccolissimo incremento per i Valdesi e sono
stati milioni persi per la Cei. Dunque il motto è “non disturbare le
gerarchie ecclesiastiche”.
Terzo scandalo è che lo Stato non metta un’indicazione di scopo alle
“preferenze” per la quota statale destinata a fini umanitari. Se
Berlusconi avesse detto che andava alla ricostruzione dell’Aquila, vi
sarebbero stati milioni di “voti”. Ma proprio questo non si voleva. La
Chiesa ha la pretesa che lo Stato non proponga nulla.
Questo è il quadro. Che cosa si può fare immediatamente?
La via maestra, la più dignitosa per la Chiesa, è che la Cei nella
seduta del suo prossimo Consiglio permanente a settembre annunci di
lasciare allo Stato una quota cospicua dei finanziamenti alla luce del
fatto che vi sono stati tagli pesanti in tutti ministeri e negli enti
locali con riflessi durissimi sulla vita dei cittadini. La Cei insieme
alle diocesi in questi anni, con progetti di credito a favore delle
famiglie deboli, ha fatto molto. Abbia il coraggio di correggere la
stortura del sistema.
Il governo a sua volta, a norma dell’art. 49 della legge che ha
istituito l’8 per mille nel 1985, convochi la commissione paritetica
con l’episcopato per rivedere – come è espressamente previsto – la
somma del gettito.
Il governo indichi chiaramente lo scopo pubblico della quota a lui
riservata per coinvolgere i cittadini su obiettivi precisi e cessi
l’andazzo vergognoso per cui milioni della “quota statale” tornano a
destinatari ecclesiastici con interventi a pioggia come accade da anni.
Si abolisca, infine, il doppio conteggio.
Marco Politi
(Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2011)
redazione@aetnanet.org