(di Fabrizio Forquet, sul Sole24Ore del 23 agosto 2011 )
L'umiliante dibattito di questi giorni sull'età pensionabile è figlio della politica debole di oggi. Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul Corriere della Sera: «Il deterioramento qualitativo delle classi politiche è un prodotto inevitabile di quella democrazia della spesa in forza della quale governare significa in pratica solo spendere per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (...) L'esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere».
La
questione delle pensioni è tutta qui. La politica debole, per non
scontentare nessuno, non esercita la propria responsabilità di
scegliere.
E ripete che sulle pensioni si è già intervenuti, che il sistema è in equilibrio. In realtà finge di ignorare che:
1. Chi oggi va in pensione può farlo prima dei 60 anni e riscuote un assegno quasi pari al 70-80 per cento dell'ultimo stipendio, mentre i ventenni o i trentenni di oggi potranno andare in pensione solo ben oltre i 65 anni e con circa la metà dell'ultimo stipendio (molto meno se si è autonomi e sempre se il Pil cresce mediamente più dell'1,5% reale all'anno). Questa è un'evidente ingiustizia generazionale.
2. Per permettere al sistema di tenersi in equilibrio contabile i contributi previdenziali che alleggeriscono le buste paga sono particolarmente alti. Questo è un onere che penalizza i lavoratori e le imprese, e pesa anche sui livelli occupazionali.
3. Il sistema previdenziale italiano costa due punti di Pil più della media europea. Secondo l'ultimo confronto elaborato dall'Ocse (Pensions at a Glance 2011) l'Italia impegna circa il 14% del Pil in pensioni, livello record tra i paesi sviluppati, contro il 12% della Francia e l'11 della Germania. Sul totale della spesa pubblica le pensioni incidono per il 30 per cento. È evidentemente un lusso che, con i nostri conti disastrati, non possiamo permetterci. Si consideri che in Germania l'età del pensionamento è già fissata a 67 anni.
4. Infine (e qui davvero c'è da chiedersi dove sia il sindacato), il sistema contributivo che sta per entrare a regime non prevede alcun riequilibrio in senso sociale. Questo vuol dire che chi guadagna bene ha la possibilità di costruirsi una buona pensione integrativa, chi guadagna poco, e magari con contratti a termine, avrà una pensione da fame.
Ecco perché la politica che rivendica l'equilibrio del sistema pensionistico prende in giro gli italiani. Ci sono almeno queste quattro buone ragioni per alzare - fatti salvi i lavoratori addetti a mansioni usuranti - l'età pensionabile.
Portare l'età del ritiro a 70 anni il più rapidamente possibile, con una progressiva convergenza anche per le donne, permetterebbe di liberare risorse (le stime indicano circa 40 miliardi di euro) che potrebbero essere utilizzate per: ridurre il cuneo contributivo che penalizza tutti i lavoratori in busta paga, indebolisce la competitività delle imprese, frena l'occupazione e la crescita del Paese; rafforzare le pensioni di chi oggi non ha la forza economica per crearsi una vera pensione integrativa ed è destinato quindi all'indigenza; migliorare il saldo dei conti pubblici italiani, evitando tagli ben più dolorosi anche sul sistema assistenziale.
Sono ragioni, va ribadito, che attengono all'equità sociale e generazionale, oltre che al rigore dei conti e alla competitività del sistema Italia. Perciò anche quella sinistra che, al tempo dell'ultimo governo Prodi, ha di fatto anticipato l'età del ritiro, dovrebbe avviare su questo una severa riflessione.
Che il partito dell'intangibilità dell'età pensionabile giochi una partita tutta estranea al concetto di equità, del resto, lo testimonia lo scandalo dei vitalizi di oltre 2.500 euro percepiti da deputati e senatori dopo una sola legislatura, ma anche l'indifferenza dell'intero Parlamento alla proposta di legge dei Radicali che giace in Commissione alla Camera (atto 1003). Una proposta che prevede l'introduzione di un sistema di welfare universale grazie alle risorse che si recupererebbero dall'aumento dell'età pensionabile. Uno dei pochi disegni compiuti di riforma del logoro sistema italiano di protezione sociale.
Ma la politica debole è incapace di grandi riforme. Risponde solo al consenso immediato e non perde tempo a costruirlo. Eppure secondo una ricerca realizzata dall'Isfol con il ministero del Lavoro, in collaborazione con "La Sapienza" di Roma, sette lavoratori su dieci tra i 60 e i 64 anni si ritengono in grado di lavorare anche dopo i 65 anni.
Tra quei sette, non solo per una ragione anagrafica, non figura la moglie di Umberto Bossi, Manuela Marrone: lei è andata in pensione, dopo aver fatto l'insegnante, a 39 anni. (Fabrizio Forquet, sul Sole24Ore del 23 agosto 2011)
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