Ore 12,15.
Classe seconda. Stiamo ripassando gli articoli: la, le, i, gli, lo. Ma
c’è qualcosa di più importante. La solerte collega, mi ricorda: “Fai
scrivere sul diario di portare cinque euro per le fotocopie”. Cinque
euro, avete capito bene. Provo ad appormi: “Devo davvero far scrivere
questa assurdità? Posso almeno precisare ai genitori che il maestro
Alex non è d’accordo?”. Non si può fare. E allora diario aperto. Avviso
importante: ricordare di portare cinque euro per la carta delle
fotocopie.
Eh sì perché nella scuola pubblica italiana non c’è più neanche quella.
Lo scorso anno i miei allievi arrivavano a scuola con la cartella e
l’astuccio nuovi e una bella risma di carta. Ora mi domando: è la
scuola pubblica o è la Caritas? Una collega mi ha scritto che sua
figlia doveva portare a scuola anche un contributo per l’acqua. C’è chi
porta la carta igienica, chi i fazzolettini per asciugar le mani. Alle
scuole elementari Longhena a Bologna lo scorso anno i genitori hanno
comprato i registri ai maestri. E poi li chiamano “contributi
volontari”. In un’intervista il ministro Maria Stella Gelmini in questi
giorni ha affermato che “chi chiede un contributo alle famiglie lo fa
per attività particolari, non per la gestione ordinaria”. Le risme di
fotocopie, i fazzolettini, i gessi rientrano nelle attività
particolari? Secondo l’Age (Associazione Italiana Genitori),
l’ammontare nazionale di questi contributi supera un miliardo di euro
all’anno. Soldi che pesano, sui bilanci delle famiglie, anche se, per
la scuola pubblica, il loro dovere di contribuzione dovrebbe essere già
assolto con il pagamento delle tasse e anche se la Costituzione
considera la scuola pubblica e il diritto allo studio una priorità per
la Repubblica, visto che lo colloca tra i primi dieci articoli
(articolo 9, tre articoli prima di quello che stabilisce il
colore della bandiera italiana e due dopo i Patti Lateranensi di libera
Chiesa in libero Stato).
Un contributo “volontario”, ormai sempre più conosciuto dalle famiglie
italiane con figli in età scolare. In origine si trattava di un
contributo volontario per l’ampliamento dell’offerta formativa, sul
sito del Ministero dell’Istruzione, alla voce “Contributo scolastico”,
si legge che: “I contributi scolastici sono deliberati dai Consigli di
Istituto. Il comma 622 della legge 296/2006 (finanziaria 2007),
intervenendo nuovamente sul tema dell’obbligo di istruzione, della
durata di dieci anni e del suo innalzamento, ha tra l’altro stabilito
che “resta fermo il regime di gratuità ai sensi degli articoli 28,
comma 1 ecc. ecc…”. In ragione dei principi di obbligatorietà e di
gratuità , non è dunque consentito imporre tasse o richiedere
contributi obbligatori alle famiglie di qualsiasi genere o natura per
l’espletamento delle attività curriculari e di quelle connesse
all’assolvimento dell’obbligo scolastico (fotocopie, materiale
didattico o altro) fatti salvi i rimborsi delle spese sostenute per
conto delle famiglie medesime (quali ad es: assicurazione individuale
degli studenti per RC e infortuni, libretto delle assenze, gite
scolastiche, ect). Eventuali contributi per l’arricchimento
dell’offerta culturale e formativa degli alunni possono dunque essere
versati dalle famiglie solo ed esclusivamente su base volontaria”. Di
fatto il confine tra ciò che è realmente sovvenzionato con i soldi che
le famiglie “donano” alle scuole è piuttosto labile e concretamente gli
istituti scolastici tendono a utilizzare le risorse dove meglio credono
(dalla carta per le fotocopie al funzionamento dei laboratori, ai
computer). Ogni giorno ne ho la prova, Ministro.
Alex Corlazzoli
(Il fatto Quotidiano.it, 19 settembre 2011)
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