La lingua del
futuro? Il cinese. Come al solito c'è voluto un po', ma alla fine anche
l'Italia l'ha capito. E s'è messa timidamente al passo, aprendo le
medie superiori alla lingua dei Mandarini. L'ultimo della lista è il
liceo «Ariosto-Spallanzani» di Reggio Emilia,
dove venerdì scorso ha preso il via un corso da 50 ore, metà delle
quali con insegnante madrelingua. Un'iniziativa concordata con il
Provveditorato e curata dall'associazione «Progetto Cina», sorta nel
2012 dall'intesa tra gli enti locali e un pool di investitori privati
in cui spiccano Confindustria, Unindustria e la Fondazione delle Casse
di Risparmio di Modena, a conferma del fatto che chi guarda ad oriente
lo fa certo «per uno stimolo di riflessione culturale e linguistica»,
come sostiene la preside del liceo reggiano, Maria Rosa Ferraroni, ma
pure (e forse soprattutto) per provare ad inserirsi in un mercato in
espansione, che potrebbe finire con il travolgere ed inglobare le
fragili economie europee. Sempre più morte come le lingue che, fino
agli inizi del Novecento, facevano parlare il mondo: spagnolo,
francese, inglese.
Gli americani, inutile dirlo,
lo avevano intuito con largo anticipo. E nel 2010 oltreoceano erano più
di 1.000 i licei attrezzati per l'insegnamento del putonghua, il cinese
ufficiale, già padroneggiato da milioni di studenti giapponesi nel
frattempo (secondo costume nipponico) portatisi avanti col lavoro e
passati a studiare il cantonese e il cinese in uso nella provincia del
Fujian, vere e proprie lingue nella lingua.
E il Belpaese? A rimorchio, adagio: negli anni Novanta erano soltanto
quattro gli atenei con lo sguardo rivolto a levante (la romana
Sapienza, l'Orientale a Napoli, Ca' Foscari a Venezia e l'università
degli studi a Milano). Adesso pure gli altri si sono uniformati,
finanziando anche borse di studio che annualmente consentono a
centinaia di universitari di recarsi a Pechino, Shanghai e Guangzhou
per perfezionare la conoscenza di una lingua che si compone di 5.000
caratteri, da imparare a memoria. «È vero che gli stessi cinesi in
parte li ignorano -, dice Giada Alì, coordinatrice dell'istituto
Confucio di Pisa- ma è comunque indispensabile essere in grado di
riconoscerne una buona quantità». Per riuscirci, «serve tempo: almeno
due anni per poter esprimersi con un minimo di scioltezza. Scrivere è
più difficile e saper leggere è considerato l'ultimo gradino».
Insomma, prima si inizia meglio è. Per questo, sia pur in ritardo
rispetto al resto del mondo, nel marzo del 2012 il Miur ha sottoscritto
un protocollo d'intesa con la fondazione «Italia-Cina», impegnandosi a
portare il putonghua nelle superiori, «attraverso l'attuazione di corsi
di lingua e cultura cinese negli istituti tecnici e professionali per
offrire occasioni ai giovani studenti di migliorare le loro competenze
nella preparazione all'accesso al mondo del lavoro». Detto fatto: pochi
mesi dopo a Bologna, all'istituto «Aldini Valeriani», è stata attivata
la scuola di cinese, lingua che in Lombardia fa media in pagella già in
una trentina di istituti. Ad ottobre s'è aggiunto alla comitiva il
liceo «Machiavelli Capponi» di Firenze, apripista delle scuole toscane
che presto s'uniranno al coro. A Prato, ad esempio, il prossimo anno
scolastico inizierà con l'esordio sulla scena del liceo scientifico
internazionale, nato per gemmazione dal Convitto Cignonini (tra i cui
banchi sedette Gabriele D'Annunzio). Si potrà scegliere tra l'inglese
ed il cinese. Chi opterà per quest'ultimo, nel quinquennio studierà in
cinese anche materie come scienza, storia e geografia «per proiettarsi
verso l'avvenire forte di una formazione linguistica, antropologia e
culturale», spiega il rettore Mario Di Carlo. Il domani è oggi. E parla
cinese. Ora anche in Italia.
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