Discutere del nostro
sistema scolastico non può farci male. La scuola lascia un segno
profondo nella vita dei singoli e in quella della comunità,
influenzandone le qualità e le possibilità civili ed economiche. Poiché
plasma il presente ma, al tempo stesso, ipoteca il futuro, è importante
discuterne, apertamentetanto più in un periodo in cui la società e
l’economia vanno trasformandosi. Il dibattito di questi giorni pone tre
questioni su cui vale la pena riflettere.
Le nuove tecnologie, la robotizzazione e i processi di digitalizzazione
della società e dell’economia, pongono alla scuola nuove sfide. Servono
nuovi saperi e maggiori competenze in ambiti scientifici. In Italia
occorre disseminare questi saperi sin dai primi gradi della scuola per
dare, ad un numero crescente di studenti, la possibilità di affrontare
quei percorsi scolastici e universitari di natura tecnico-scientifica
che offrono maggiori opportunità di occupazione. Non solo materie
scientifiche ma serve tornare ad insegnare la logica. Le tecnologie,
infatti, ci hanno permesso di affidarla alle macchine, ai computer, e
così, la generazione dei nativi digitali rischia, paradossalmente, di
perdere la capacità di ragionare che è, invece, da sempre il motore del
progresso. Del resto non è un caso che i test di ingresso delle
migliori scuole, italiane e straniere, siano proprio basati sulla
valutazione della capacità logiche e di ragionamento. Dobbiamo,
rapidamente, portare la scuola italiana su questa strada, investendo
sul merito degli insegnanti e mettendo finalmente gli studenti al
centro delle nostre attenzioni.
Occorre evitare alle future generazioni e alla nostra società le
conseguenze di un drammatico mismatch fra ciò che si sa, o si è in
grado di imparare e ciò che serve sapere o saper fare. Un’economia
globalizzata, infatti, muove investimenti e crea lavoro in quei
territori che offrono le migliori opportunità e, non vi è dubbio, che
nuove produzioni e nuovi servizi richiederanno saperi, competenza e
talento. La questione, dunque, non riguarda certo il “quanto” si sta a
scuola, ma, piuttosto, il “cosa” vi si impara. Se il “cosa” non diventa
utile ad affrontare il futuro, stare in classe fino a 18 anni non
servirà a granché. In questa ottica, non risolve, ma certo aiuta,
costruire una relazione virtuosa ed equilibrata fra scuola e mondo del
lavoro.
La seconda questione riguarda la riduzione da 5 a 4 anni della durata
della scuola superiore. L’idea non è di oggi. Nella maggior parte dei
Paesi europei, infatti, il percorso scolastico dura 12 anni mentre da
noi gli anni sono 13, cosicché gli studenti italiani possono accedere
all’ Università un anno dopo rispetto ai loro coetanei europei. Una
sperimentazione era stata già avviata alcuni anni fa in un numero di
scuole molto circoscritto ma era stata presto interrotta, anche a causa
delle resistenze di chi, per convinzione o convenienza, era contrario.
Ora, meritoriamente, la Ministra Fedeli ci riprova e mostrando coraggio
allarga la sperimentazione a un numero più significativo di scuole.
Sulla proposta sono state già sollevate le solite obiezioni: si
svilisce il bagaglio culturale degli studenti; si mette troppa enfasi
sull’inserimento lavorativo. Sono argomenti sensati che vanno tenuti in
conto ma che non possono impedire la sperimentazione. Alcune
esperienze, peraltro, ci sono già: il Liceo Guido Carli di Brescia e
l’Istituto Tecnico Tosi di Busto Arsizio e ciò dimostra che anche da
noi si può fare come già fanno molti altri Paesi simili al nostro.
In ultimo, la questione più delicata e complessa che riguarda
l’elevazione del cosiddetto “obbligo scolastico”. La discussione sul
punto va affrontata senza pregiudizi guardando in faccia la realtà.
Oggi, il 98% dei licenziati della scuola media prosegue nelle superiori
e, ben oltre l’80% arriva al diploma di obbligo scolastico.
Negli anni 60, a malapena, il 30% degli studenti arrivava a terminare
la scuola media. Nonostante ciò abbiamo un livello di disoccupazione
giovanile sopra il 30%, fra i più elevati in Europa e sono oltre 2
milioni i cosiddetti Neet, giovani che non studiano e non lavorano.
L’età media di ingresso nel mondo del lavoro nei paesi più avanzati è
attorno ai 22-23 anni mentre da noi supera i 28. In questo quadro
discutere della mera elevazione dell’obbligo scolastico, certo, non
aiuta. Sarebbe, invece, più utile ragionare sul fatto che la scuola
italiana, in molte aree del Paese, continua a non avere quel livello di
qualità che permette agli studenti, alla fine dei loro percorsi di
studio, di pareggiare le differenze sociali, valorizzando il merito.
Dobbiamo riconoscere che la nostra scuola, rischia di diventare un
fattore di divaricazione delle opportunità: chi ha più possibilità alla
partenza, molto spesso termina il proprio percorso educativo con un
vantaggio ancora maggiore. Chi aveva meno possibilità, si trova ancor
più distaccato dagli altri. Non si risolve un problema di questa
portata limitandosi a tenere in classe i ragazzi fino a 18 anni. Serve,
come del resto suggerisce anche la ministra Fedeli, un lavoro paziente
che metta ordine nell’offerta formativa; eviti sovrapposizioni e
conflitti, come quello fra lauree professionalizzanti e formazione
tecnica superiore (ITS); elevi finalmente la qualità media del nostro
sistema educativo che va considerato nelle sue due fondamentali
componenti: scuola e formazione professionale. Su questi temi
Confindustria pone da sempre grande attenzione. Ricordo il dossier
dell’ottobre del 2014, con analisi e proposte a tutto tondo e, da
ultimo, il documento, “Giovani, impresa, futuro”, presentato a giugno
di quest’anno, con una proposta organica per realizzare un sistema
scolastico duale anche in Italia. Sono questioni complesse ma vanno
affrontate con rapidità, determinazione e, soprattutto, grande senso
pratico se davvero si vuole dare effettività ai diritti.
Giovanni Brugnoli
Vicepresidente
Confindustria
Il Sole 24 Ore