Non è un tema nuovo. Lo diceva don Milani sessant’anni fa. Il professor Tullio De Mauro ne scrive da decenni. L’Unione europea raccomanda la buona conoscenza della lingua come condizione della cittadinanza e della coesione sociale. L’Organizzazione mondiale della sanità spiega che è cosa indispensabile per farcela nella vita. Il che significa saper leggere, capire quel che si legge, scrivere e parlare correttamente non solo ti aiuta a proseguire negli studi, a salvaguardare il tuo posto di lavoro o a trovarne un altro ma anche a difenderti dai soprusi, far valere i tuoi diritti, prevenire e curare malattie, allontanare dipendenze, evitare il carcere, allungare la vita per te e i tuoi figli.
Eppure - dice bene Paola Mastrocola - non si impara più la nostra lingua a scuola. Bisogna iniziare ad urlarlo: è uno scandalo insopportabile. Che va descritto puntigliosamente. Come si fa per le malattie gravi. Le parole non si usano bene e se ne utilizzano sempre di meno. Si legge e si ascolta spesso senza capire: i test invalsi ce lo mostrano con chiarezza. Si scrive per frasi fatte, spesso tratte da stereotipi della tv. Non si conoscono le basi della sintassi. Tanto che le frasi scritte vengono tenute su - si fa per dire - da parole tuttofare. Così la parola «che» è ormai polivalente: la si trova, indifferentemente, al posto di «a cui», «di cui», «in cui» ma anche al posto di «dove» e di «quando». È una questione decisiva. Perché si perde la lingua e si perde la logica, il saper ragionare. Il congiuntivo si è eclissato e muore con esso la capacità di costruire ipotesi. È sparito l’uso dei connettivi fondamentali della nostra lingua: «infatti», «mentre», «tuttavia», «sebbene». E muore l’argomentazione. Non c’è, poi, idea di punteggiatura. E sparisce l’ortografia: le doppie, gli accenti, l’uso della h. O addirittura non si imparano i nostri pochi fonemi: ghe, ghi, che, chi, sce, sci, gli... E pensare che i bambini cinesi, in terza elementare, devono sapere leggere e scrivere almeno 300 ideogrammi, che in Francia si fa il dettato fino al liceo... Mentre il dettato nella nostra scuola primaria è merce rara già dalla seconda classe.
Ma perché? C’è, forse, scritto da qualche parte che la scuola italiana non deve mettere al centro l’apprendimento serio della nostra lingua? Assolutamente no. Anzi. Le indicazioni nazionali - una volta si chiamavano programmi - della nostra scuola di base - materna, primaria e media - insistono proprio sull’Italiano. Sintassi. Grammatica. Lessico. Punteggiatura. In modo dettagliato. E si tratta di norme. Che chi insegna a scuola è tenuto a seguire. Proprio così: pur avendo la libertà di metodo, infatti, si devono garantire alcuni traguardi, che sono irrinunciabili.
Certo, ci sono ragioni antropologiche e storiche che «spiegano» come le regole e i limiti - le grammatiche - siano tristemente spariti da tutta la vita nazionale. Certo, è triste constatare che i tagli alla scuola pubblica colpiscono le scuole primarie del Sud, lì dove c’è meno tempo pieno e più povertà materiale e culturale. Certo, la tv che portava l’italiano ovunque, nel solco della scuola pubblica e gratuita risorgimentale - vi ricordate il maestro Manzi? - è diventata la tv che massacra la nostra lingua.
Ma fa bene Mastrocola a evitare l’analisi e venire alla proposta. Che io condivido: un test prima del biennio delle superiori. Ma perché ciò possa funzionare ci vuole un tempo dedicato a chi è rimasto indietro. E soprattutto ci vuole un altro esame, ben prima. Bisogna ripristinare per tutti - italiani e stranieri - l’esame di quinta elementare. Per salvare l’Italiano è urgente, a dieci anni, una prova vera: dettato, tema, riassunto e test di «uso della lingua». Perché è a quella età che si consolidano le basi della lingua materna o che si accede con successo a un’altra lingua. Perché la prova spingerà docenti e anche genitori a guardare con altri occhi alle competenze su cui non si transige. E perché è un rito di passaggio, cosa che serve a ogni essere umano che sta crescendo.
La stampa.it