La protesta dei
precari e il nuovo sistema di formazione iniziale degli insegnanti,
presentato recentemente dal ministro Gelmini, propongono due
interrogativi sul futuro a lungo termine della scuola italiana. Come
riportare il numero di insegnanti a misura delle effettive dimensioni
della popolazione scolastica? Come garantire il loro ricambio
generazionale?
Negli ultimi 30 anni, l'Italia non ha
trovato il coraggio di ridimensionare il proprio corpo docente,
nonostante il numero di studenti che entrano ogni anno nella scuola si
sia dimezzato. Risultato: pur considerando le specificità del
nostro sistema d'istruzione (come l'integrazione dei disabili) oggi il
numero degli insegnanti per alunno è nel nostro paese di un terzo
superiore alla media Ocse nelle primarie e nelle medie, del 15% nelle
superiori. L'eccesso di docenti non
ha del resto portato evidenti benefici in termini di bontà degli
apprendimenti: è comprensibile che il governo abbia fortemente
rallentato gli ingressi nella scuola per liberare risorse da destinare
- almeno secondo le dichiarazioni - al miglioramento della qualità. A
scapito, però, dei 229mila precari delle cosiddette "graduatorie a
esaurimento", che vedono ridursi le loro legittime aspettative di
stabilità, accumulate in anni di formazione e di lavoro in aula,
alimentate dalla promessa implicita (e talvolta esplicita) di molti
governi che fosse sufficiente "mettersi in fila" e aspettare in media
dieci anni per passare in ruolo. Lo scontro è, dunque, fra due
esigenze, entrambe fondate.
Ma gli insegnanti italiani sono anche troppo vecchi: la loro età media
è, infatti, la più elevata al mondo. Perché abbiamo moltissimi over 50,
ma anche perché quelli con meno di 30 anni praticamente non esistono.
Sono l'1,4% nella primaria (media Ocse 15,3%), scendono addirittura
allo 0,5% nelle medie e nelle superiori (media Ocse rispettivamente 12%
e 10,5%).
Supponiamo che il governo - come annunciato - trovi le risorse per fare
entrare in ruolo gli attuali 230mila precari, la cui età media è 38
anni. Tutto è bene quel che finisce bene? Purtroppo, no. Con gli
attuali trend demografici, ciò significherebbe precludere ancora per 15
anni almeno - una generazione - l'accesso alla scuola alle nuove leve
che desiderano intraprendere la professione docente.
Sarebbe bene, invece, avere insegnanti più giovani. Perché la minore
differenza d'età e la maggiore familiarità con le nuove tecnologie
della conoscenza li faciliterebbe presumibilmente nel compito
d'interpretare le esigenze di apprendimento dei loro allievi.
Perché ragionevolmente avrebbero motivazioni elevate, specie se
venissero introdotte significative progressioni di carriera e incentivi
alla qualità dell'insegnamento. Perché la loro qualità professionale
potrebbe essere garantita da una formazione iniziale più rigorosa e
selettiva: proprio come si propone di essere quella appena proposta
che, rebus sic stantibus, rischia invece di rimanere un contenitore
vuoto. Se l'accesso delle nuove leve fosse impedito per altri 15 anni,
chi avrebbe ancora il coraggio d'intraprendere la professione di
insegnante?
In conclusione, se il corpo docente va ridimensionato e insieme
ringiovanito, dalla situazione presente è difficile uscire senza traumi
sociali. Realisticamente, il punto è come attenuarli e ripartirli nel
modo più equo possibile, realizzando i due obiettivi ed evitando di
concentrare sui più giovani (e meno tutelati) i costi di un'operazione
comunque non indolore.
Una soluzione praticabile si basa su due passaggi. Sappiamo che, per
ragioni anagrafiche, nel prossimo decennio circa 300mila insegnanti
andranno in pensione, come confermano anche le stime governative. Il
processo andrebbe accelerato con incentivi all'uscita e
pre-pensionamenti: nel giro di pochi anni, il numero d'insegnanti
potrebbe ritornare a un livello fisiologico, aprendo lo spazio per
nuovi ingressi, in particolare in quelle aree disciplinari (matematica,
ad esempio) oggi carenti, ma essenziali per il futuro dei ragazzi e del
paese. Il costo economico per il sistema pensionistico sarebbe
significativo, ma probabilmente inferiore a quello sociale del mancato
ricambio generazionale.
Il secondo passaggio è abolire le graduatorie, che regolano l'accesso
all'insegnamento per anzianità, passando alla chiamata diretta da parte
delle scuole fra gli iscritti a un albo professionale. La scelta fra
gli attuali precari e i giovani aspiranti docenti che hanno completato
la formazione iniziale andrebbe fatta sulla base delle qualificazioni e
capacità, non solo dell'anzianità: i migliori fra i precari - sebbene
non tutti - vedrebbero premiate le loro aspettative. Ma, al tempo
stesso, non si chiuderebbero le porte della scuola a un'intera
generazione di neolaureati.
(di Andrea Gavosto da Il Sole24Ore)
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