A che serve oggi la
poesia? Ha
ancora senso studiarla, amarla, imparare i versi a memoria? Essa è un
optional
nella vita dell’uomo o è imprescindibile? Sono interrogativi a cui è
lecito
dare una risposta oggi che si celebra la Giornata mondiale della poesia.
Due secoli or sono Foscolo
costruisce un intero carme sulla bellezza della poesia e sull’efficacia
che
essa ha nell’eternare i nomi dei grandi. Nei Sepolcri con forza
icastica
Foscolo rappresenta le Pimplee (ovvero le muse, cioè la poesia) vincere
sul
tempo e sulla dimenticanza che ogni cosa avvolge:
E quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplee fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio.
Ma sempre Foscolo
nelle Grazie
avverte che la poesia, ma più in generale l’arte, è a rischio di
estinzione, la
bellezza non è più salvaguardata e viene confusa con la rozzezza e la
volgarità. Infatti, le grazie, esseri intermediari tra gli dei
immortali e noi
esseri umani, con il compito di portare l’uomo da una condizione ferina
a una
condizione più ingentilita e più compiuta, sono in pericolo e sono
costrette a
fuggire in Atlantide, dove viene intessuto un velo per proteggerle. La
scomparsa della poesia e l’incapacità di apprezzarla, avverte Foscolo,
sono per
qualsiasi civiltà un campanello di allarme per una possibile
distruzione
dell’umanità, che può ritornare alla condizione primitiva.
La poesia rischia di
scomparire, non tanto perché non ci siano più poeti, ma perché sono
sempre meno
i fruitori in grado di apprezzarla in un’epoca in cui morte, oscenità,
bruttezza, abnorme uso della sessualità sembrano aver sostituito
desiderio di
vita, sacralità, bellezza e tenerezza amorosa. Nella contemporaneità
sembra
essersi avverata la profezia delle streghe che all’inizio del Macbeth
esclamano
«il bello è brutto e il brutto è bello». Si è affermata la tirannia del
brutto
proprio nei campi artistici che per eccellenza consacravano il trionfo
della
bellezza.
Eppure le parole che
Dostoevskij scrive ne I demoni nel 1871, quando i segnali della
modernità sono
già ben marcati, ci dovrebbero far riflettere: «Io dichiaro che
Shakespeare e
Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini, più in
alto dello
spirito popolare, […], più in alto della giovane generazione, più in
alto della
chimica, quasi più in alto dell’umanità intera, giacché sono il vero
frutto
dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa
essere...».
Due anni prima, Dostoevskij
afferma nell’Idiota che «il mondo sarà salvato dalla bellezza». Nella
Lettera
agli artisti (1999) Giovanni Paolo II spiega che «la bellezza salverà
il mondo»
perché infonderà sempre quello stupore e trasmetterà quell’entusiasmo
che
permetteranno di rialzarsi e di ripartire. Rivolgendosi ancora agli
artisti nel
2009 Benedetto XVI scrive che «speranza è vera figlia di bellezza».
Dedicando a
Cangrande della Scala Il Paradiso Dante dichiara che il fine della sua
opera è
addirittura quello di «rimuovere gli uomini, finché sono ancora su
questa
terra, dalla condizione di peccato e infelicità per accompagnarli a
quella
della felicità e beatitudine». Grande presunzione, quella del
Fiorentino,
giustificabile solo per la convinzione che il merito di questa salvezza
offerta
agli uomini non è suo, ma proviene da Colui che «move il sole e l’altre
stelle». Insomma, se da un lato Dante non farebbe altro che annotare
nella
memoria quanto accaduto e visto e, poi, trascrivere, dall’altro il
talento
artistico che lui possiede proviene da Dio e deve essere messo al
servizio
della verità e del bene dell’umanità. Leopardi arriverà ad affermare
nella
canzone «Alla sua donna» che, se l’uomo incontrasse la bellezza e la
amasse, la
sua vita sarebbe come quella che «nel cielo india», ovvero un Paradiso
in
Terra, e lui perseguirebbe ancora la virtù, cioè la sua vita sarebbe
più piena
d’amore. Sia Dante che Leopardi parlano di uno stretto rapporto tra
bellezza,
felicità, bontà. Nello splendido film “Le vite degli altri” un
personaggio si
chiede: “Come si fa ad essere cattivi dopo aver sentito una musica così
bella?”.
La bellezza vera cambia,
educa, muove. Il bello provoca stupore e contemplazione, ma, al
contempo,
impeto e ardore di conoscenza. Il bello porta a spalancarsi di fronte
al
mistero del reale, come scrive Montale «Tutte le cose portano scritto
più in
là».
La poesia, così come ogni
altra espressione artistica, ha sempre un intimo rapporto con la
realtà. Nel I
atto dell’Amleto il protagonista afferma: «Ci sono più cose in cielo e
in terra
che nella tua filosofia, Orazio». La realtà è più ricca di ogni
fantasia e
l’arte partirà, in un modo o nell’altro, sempre dalla sua osservazione.
Lo
stesso Dante apre il Paradiso scrivendo:
La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Per
Dante l’uomo deve guardare
la bellezza e la gloria del creato. Il verbo «guardare» e la parola
«sguardo»
sono fra i termini più presenti nella Commedia. Una visione simile ha
Manzoni
che nel De inventione afferma che il poeta non inventa mai nulla, ma
trova nel
reale le impronte e le orme di Dio, si sorprende e l’arte scaturisce da
questa
meraviglia.
La grande poesia, anche quando
non scaturisce da un’esperienza religiosa in senso stretto (come quella
di
Dante), è, comunque, esito e prodotto di quella potente domanda che
risiede nel
cuore dell’uomo e che si spalanca alla realtà con un anelito fortissimo
di
bellezza, di amore e di felicità. Per questo il poeta legge nel reale
il segno
di qualcosa che sta oltre, coglie la provocazione e la sollecitazione
che la
realtà è per lui. In questo senso la poesia è sempre religiosa o
«metafisica»
come la definirà T. S. Elliot, perché ci interroga sul Mistero e
risollecita
ogni volta la profondità del cuore dell’uomo.
Nell’epoca contemporanea, in
cui la percezione religiosa dell’uomo è sempre più affievolita, vari
sono i
tentativi di affrancare l’estetica da una dimensione integrale
dell’uomo. Si fa
così strada la tentazione di un’estetica puramente edonistica nella
convinzione
che dalla lettura così come dalla fruizione di qualsiasi opera d’arte
conti
solo il godimento del piacere. Oggi l’espansione dell’acculturamento di
massa
non ha portato ad una diffusione, ma a una commercializzazione e a una
massificazione della cultura stessa. D’altronde, già Leopardi nello
Zibaldone
profetizzava la diffusione di due canali culturali-artistici: quello
della vera
arte, destinata ad essere compresa da un numero sempre più ridotto di
persone,
e quello dell’opera grezza, dozzinale e commerciale, per tutti, non più
vera
arte. Sorge allora la domanda se la lettura sia per il puro godimento o
la
piacevolezza sia solo un tramite e uno strumento perché si possa
guadagnare
qualcosa in termini di utilità. Manzoni non ha dubbi al riguardo
scrivendo
nella Lettera sul Romanticismo che «la poesia deve avere il vero per
oggetto,
l’utile per iscopo, l’interessante per mezzo».
Comunque, non dimentichiamoci
mai quanto scrive san Giustino, martire e filosofo: «Tutto il bello ci
interessa. Il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del
Logos
nella sua totalità. Ne consegue che tutto ciò che di bello è stato
espresso da
chiunque appartiene a noi cristiani». Ma tutte le cose hanno una loro
intima
bellezza, un’impronta di Dio, come sostiene san Tommaso e come scrive
Dante nel
Paradiso:
Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
Per
questo san Paolo scrive:
«Vagliate tutto, ma trattenete quello che è buono». È con questa
certezza che
vogliamo ripartire nella lettura della grande poesia che è tale perché
esprime
un cuore in ricerca della verità, un cuore che palpita, che soffre, cha
ama,
che desidera l’eternità. Per questo l’avventura dello studio della
poesia è
affascinante perché è l’incontro con un uomo che ha saputo esprimere le
sue
domande e raccontare la sua esperienza.
La scuola di oggi ha il torto
di aver troppe volte spento questo fascino. Troppe volte la poesia è
stata
ridotta ad un laboratorio di analisi, di esercizio retorico o
stilistico dove
si assecondano le mode letterarie del momento a scapito della
letteratura e
della poesia stessa. La poesia è viva solo se ci sono degli uomini vivi
che
palpitano, che domandano, che sperano, che vivono l’avventura della
lettura
come l’esperienza dell’incontro con qualcuno. Negli ultimi decenni si è
spesso
parlato della centralità del testo.
Oggi
vogliamo ritornare alla
centralità dell’io e del cuore. Solo così, forse, usciremo dagli schemi
preconfezionati
delle antologie scolastiche secondo i quali gli autori sono ridotti ad
alcune
parole chiave, a giudizi critici che definiscono (cioè riducono)
piuttosto che
spalancare al mistero della bellezza dell’arte.
di Giovanni Fighera –Bussola
Quotidiana 21-03-2011