In Italia un
giovane su tre è senza lavoro, il tasso di disoccupazione giovanile
negli ultimi due anni e mezzo è salito di dieci punti. Due milioni di
ragazzi e ragazze in età compresa tra i quindici e i ventiquattro anni
non studiano e non lavorano. Sono dati che impongono una domanda
sconsolata: ma in che paese viviamo? Luciano Gallino, noto sociologo,
tra i maggiori esperti delle trasformazioni del mercato del lavoro
italiano, non ha dubbi: “L’Italia è un paese dove la politica
economica, in particolare quella industriale e quella per
l’occupazione, praticamente non esiste, viene lasciata al caso, al
cosiddetto mercato o alle vicende economiche internazionali senza alcun
progetto realistico per creare occupazione soprattutto per quel che
riguarda i giovani. È anche un paese in cui la crisi che il mondo sta
attraversando, al tempo stesso finanziaria ed economica, è stata assai
poco compresa e ancor meno contrastata. Rassegna Cerchiamo
di approfondirla questa crisi. Intanto, professor Gallino, che cosa non
si è capito qui in Italia?
Gallino Innanzitutto bisogna dire che noi dobbiamo affrontare delle
difficoltà specifiche anche se la situazione del paese va inquadrata in
quella del mondo occidentale. In Italia non si è capito che
l’occupazione non può essere affidata al mercato in presenza di una
crisi che ha messo spietatamente in luce proprio le sue insufficienze.
Bisognerebbe, invece, pensare a un progetto simile al New Deal
americano degli anni trenta, fondato su robuste politiche keynesiane.
Soprattutto servirebbe che lo Stato assumesse il difficile ma
indispensabile ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. Negli
ultimi anni, invece, gli Stati si sono assunti il compito di salvatori
di ultima istanza degli enti finanziari, senza occuparsi di ciò che
stava accadendo nel campo della produzione e dell’occupazione.
Rassegna Facciamo un passo indietro. In realtà il fenomeno
dell’inoccupazione o disoccupazione giovanile non nasce con la crisi
del 2008, ma ben prima. E con un tratto caratterizzante: per i ragazzi
italiani l’entrata nel mondo del lavoro è stata ed è segnata dalla
precarietà.
Gallino Il malanno endemico di cui soffre l’Italia è legato a una
concezione puramente mercantile del lavoro. I vari governi che si sono
succeduti negli ultimi vent’anni hanno adottato il credo liberista
secondo il quale quanto più l’occupazione è flessibile, tanto più essa
aumenta. La realtà ha dimostrato che questo assunto è sbagliato.
Diciamo così: quanto più l’occupazione è flessibile e precaria, tanto
più, al minino scossone, diminuisce. Ad aggravare una malattia già di
per sé mortale vi è il fatto che da noi non esistono sistemi di
protezione consolidati come accade in Europa: la Francia, ad esempio,
ha scelto la strada del reddito minimo garantito, mentre in Danimarca
sono in vigore sia politiche di sostegno al reddito per i disoccupati
sia aiuti specifici alle famiglie. E non è tutto. La produttività del
lavoro – intesa proprio come valore aggiunto per ora lavorata – è
stagnante da oltre quindici anni. In Germania, in Francia e nel Regno
Unito dal 1995 ad oggi è aumentata tra i venti e i trenta punti
percentuale. E con la produttività sono stagnanti anche i salari,
praticamente fermi. Produttività e salari stagnanti significano minor
domanda interna e quindi meno posti di lavoro. Quando la crisi è
arrivata tutti i paesi hanno subìto un colpo durissimo, ma in Italia
l’impatto è avvenuto su un organismo economico già particolarmente
debole.
Rassegna Nel secondo dopoguerra uno degli strumenti, usiamo questo
termine anche se improprio, che ha consentito a intere generazioni di
entrare nel mondo del lavoro (e anche di cambiare il proprio destino) è
stata la scuola. Oggi nel nostro paese si investe davvero troppo poco
nell’istruzione. È possibile creare occupazione giovanile in queste
condizioni?
Gallino I tagli alla scuola in tutte le sue forme e livelli, dalle
materne all’università, sono uno tra i provvedimenti più insensati che
si potessero immaginare per far fronte ai problemi dell’occupazione
giovanile e del rilancio dell’economia. Nel giro di pochi anni si
avranno centinaia di migliaia di ragazzi meno formati e meno istruiti
di quanti ne avremmo avuti senza i tagli “lineari”. Bisogna dire che
altri paesi, la Germania o il Regno Unito ad esempio, dove pure hanno
ridotto le risorse destinate allo Stato sociale, hanno evitato di
metter mano ai fondi per la scuola. Da noi, invece, comunque lo si
guardi, si tratta di una sorta di suicidio nazionale e, al tempo
stesso, è un attacco – ho sentito uno storico definirlo un genocidio
culturale – nei confronti delle nuove generazioni.
Rassegna Di che tipo di formazione ci sarebbe bisogno? Serve
un’istruzione tecnica che consenta l’acquisizione di nozioni al passo
con i tempi o serve altro?
Gallino Molte delle cose dette sul fatto che in Italia non esiste un
collegamento adeguato tra industria e scuole, tra istruzione ed
economia nascono da una quasi inverosimile ignoranza. Il complesso
della rete degli istituti tecnicoindustriale è un potente collegamento
tra scuole e industrie da parecchie generazioni. Se l’industria
italiana ebbe negli anni sessanta e ottanta un notevole sviluppo e una
importante affermazione, lo si deve al fatto che la scuola pubblica,
attraverso gli istituti specifici, formava decine di migliaia di
tecnici, di periti, di capi. Il problema è un altro: sia l’industria
privata sia il sistema pubblico di ricerca sono sottosviluppati. Scarsi
investimenti in ricerca si traducono in pochi ricercatori e così si
disincentiva naturalmente anche l’istruzione universitaria. Inoltre non
abbiamo più un sistema industriale degno di questo nome. Ormai le
aziende manifatturiere importanti nel nostro paese sono ridotte a una,
Finmeccanica, dato che la Fiat non sappiamo che fine farà. Questo vuol
dire che anche sulle università e sugli istituti tecnici si riversa
quella scarsa domanda di personale altamente qualificato. E così si è
innescato un circolo perverso: senza ricerca non si provvede a tenere
in piedi e a sviluppare produzioni complesse e sofisticate come quelle
che una volta avevamo.
Rassegna Ma un sapere così parcellizzato, come sarà quello prodotto
dall’università targata Gelmini, aiuterà i ragazzi e le ragazze a
orientarsi e a stare nel mondo del lavoro o sarà un ulteriore handicap
Gallino Per il momento la riforma Gelmini è un colossale pasticcio.
Nell’università, ad esempio, sta provocando un grande caos: decine di
migliaia di studenti non sanno più quali corsi seguire e quali esami
affrontare. Nell’insieme è una pessima ricetta perché da un lato non
considera che di sapere tecnologico e tecnico ce n’è già molto nella
scuola e, dall’altro, perché non tiene conto che noi avremo bisogno di
persone che, accanto a una ragionevole dose di specializzazione,
abbiano ampie competenze generali e strategiche per comprendere i
grandi fenomeni del mondo in movimento. Ci sarebbe molto più bisogno di
quanto non si creda di pensiero critico in tutti campi. Avremmo bisogno
di persone che non si pongono davanti ai fenomeni economici e culturali
come se il mondo fosse caduto dall’alto così come è oggi, ma si
rendessero conto che il pianeta è stato costruito in base a precisi
progetti ideologici, culturali e politici e si potrebbe anche cambiarlo
adottando altri progetti . La riforma della scuola sembra impedire o
comunque ostacolare la formazione di un pensiero critico.
Rassegna In una recente ricerca di Almalaurea sono emersi dati
impressionanti. Oltre a una impossibilità di passare da un destino
predefinito a uno scelto – difficilmente il figlio di un operaio
diventerà ingegnere –, qualora ci riuscisse, il figlio di un
professionista avrà un’aspettativa di guadagno pari a 150 mentre il
figlio di un operario che si laureasse in ingegneria avrebbe
un’aspettativa di guadagno pari a 100. Che effetto ha questa situazione
per le generazioni più giovani, ma anche per il paese?
Gallino Significa che ad onta delle affermazioni che vengono rilasciate
anche – ahimè – da politici di centrosinistra, le classi sociali sono
una realtà dura e severa come non mai. Uno degli sviluppi più
preoccupanti degli ultimi quindici, venti anni, o forse più, di cui
oggi raccogliamo gli amari frutti, è l’enorme crescita delle
diseguaglianze. Sono spaventose a livello mondiale, ma sono anche
elevatissime nei singoli paesi e il nostro, tra quelli Ocse, si
distingue per essere diventato uno tra i più diseguali del mondo
assieme agli Usa, al Brasile e al Regno Unito. Tra i costi della
diseguaglianza c’è questo: il percorso verso professioni e posizioni
sociali più elevate, meglio retribuite, con più potere decisionale è
sostanzialmente precluso perché il potere è concentrato di fatto nelle
mani di circa il 10 per cento della popolazione, mentre il rimanente 90
è rimasto quasi a terra. Bisognerebbe cominciare a inserire nell’agenda
politica la considerazione che le classi sociali esistono, che sono
delle gabbie ferree da cui nessuno può uscire soltanto sgomitando.
Alcuni ci riescono ma, come meccanismo collettivo, l’ascensore verso
l’alto si è rotto. E bisognerebbe, anche, prendere posizione contro un
fenomeno aberrante: negli ultimi venti anni vi è stata una
straordinaria redistribuzione di reddito tutta però dal basso verso
l’alto. Il 10 per cento più ricco è diventato sempre più ricco e il
40-50-60 per cento dei più poveri e dei meno benestanti è diventato
sempre più povero. Ripeto, le diseguaglianze non consistono soltanto
nel possedere o meno più soldi. Avere un reddito più elevato significa
maggior potere e quindi maggiori possibilità di raggiungere i gradi più
elevati della scala sociale, mentre reddito inferiore e bassa ricchezza
significano restar fermi alla porta di un ascensore rotto.
Rassegna Ieri precari, oggi disoccupati, domani segnati
irrimediabilmente da questo vero “difetto d’origine” anche quando la
crisi sarà finita. Esiste questo rischio per gli under 40 di oggi?
Gallino Quando prendo in mano qualcuno dei miei vecchi libri sulla
precarietà o sul lavoro che non è una merce sono diviso tra due
sentimenti contrastanti. Il compiacimento per aver scritto queste cose
diversi anni fa e la voglia di gettarli tutti nel giardino sottostante
perché in fondo non sono serviti a nulla. Aver denunciato i rischi di
questo fenomeno non ha cambiato di una virgola le scelte che poi si
sono compiute. Alcune settimane fa il governatore della Banca d’Italia,
Mario Draghi, ha detto che non solo la precarietà nuoce alle persone,
ma nuoce perfino alle aziende. Quale miglior motivo per cercare di
andare in un’altra direzione. Il fatto è che i disastri combinati su
questo fronte non si rappezzano con alcuni interventi, anche se questi
sarebbero necessari e urgenti. C’è da ricostruire il destino di
un’intera generazione o forse di due. Quello che succederà, e ormai si
sta delineando, è che coloro che hanno avuto per parecchi anni
occupazioni precarie vanno incontro a versamenti pensionistici
dell’ordine del 20 per cento del salario medio. In concreto: da anziani
dovranno vivere con assegni di 200 euro. È stata semidistrutta
un’intera generazione. Il male c’era già, ma la crisi lo ha
violentemente scoperchiato. Se era difficile per un giovane trovare nel
2006 un contratto di lavoro a tempo determinato, oggi è diventata
un’impresa disperante. Teniamo conto che dal 2005 oltre il 75 per cento
di tutti i nuovi avviamenti al lavoro passa per i contratti atipici.
Non tutti sono giovani, ma nella stragrande maggioranza lo sono.
Contrariamente a quello che qualcuno ha allegramente sostenuto negli
ultimi tempi, non è affatto vero che dopo due o tre anni questi
contratti si trasformano in contratti stabili; lo diventa solo un
terzo, mentre il resto rimarrà nella precarietà per decenni con
conseguenze serissime sull’esistenza e sulla progettualità della vita.
Rassegna Se il paese brucia il destino di intere generazioni, finisce
per non sfruttare fino in fondo le potenzialità che potrebbe avere...
Gallino Certo, e i giovani si chiedono che cosa fare. È terribilmente
difficile dare loro una risposta. In assenza di una politica
industriale e la conseguente sparizione della grande industria, di
fronte alla mancanza di politiche del lavoro, dell’istruzione eccetera
c’è poco da proporre o da fare. Certamente bisognerebbe costruire –
nella scuola – un’idea più realistica e concreta della realtà. Troppi
giovani cadono nell’ipnosi di credere che il mondo è fatto così e non
c’è nulla da fare. Bisognerebbe, invece, essere in grado di sviluppare
progetti culturali, politici e perfino morali di segno diverso. Da
questo punto di vista gli intellettuali e gli accademici hanno, più
ancora degli insegnanti, la loro responsabilità. Rassegna
Rassegna Ma lei professor Gallino ritiene si possa invertire questa
tendenza che brucia intere generazioni e impoverisce l’Italia?
Gallino Occorre adottare nuove politiche economiche, nuove politiche
del lavoro. Si deve in primo luogo buttare nel cestino la legislazione
sul lavoro degli ultimi vent’anni e sostituirla con una di segno
opposto. Oggi sono ammesse fino a quarantacinque tipologie di lavoro
precario, senza considerare quelle dell’economia sommersa. Per
cominciare è necessario annullare questa catastrofica pletora di lavori
atipici per tornare al primato del contratto unico a tempo
indeterminato e orario pieno, corredato di quattro o cinque deroghe
perché sia le persone che le imprese possono avere bisogno di lavoro a
termine. Sarebbe compito della legislazione definire che il lavoro è
per definizione senza scadenza. Sancire questo principio converrebbe
economicamente e rispetterebbe l’identità e la dignità della persona.
La mancata scadenza invece riguarda le merci sugli scaffali dei
supermercati. E poi è necessario metter mano alle enormi iniquità del
nostro sistema fiscale per cui un lavoratore con un salario tra i 15 e
20 mila euro di reddito annuo, sia pure con un po’ di detrazioni, è
assoggettato a un’aliquota minima del 23 per cento, mentre un manager
che guadagna 5 milioni di plusvalenze, grazie al meccanismo delle stock
options sulle azioni, paga il 12,5 . Un sistema fiscale di questo
genere è oscenamente iniquo e incide in modo negativo sulle entrate
dello Stato. C’è poi il grosso problema dell’economia sommersa,
valutata ormai attorno al 20 per cento del Pil. Parliamo di circa 300
miliardi: al fisco generale sono sottratti così poco meno di 120
miliardi. Finora nessun governo è riuscito a mettervi mano, ma come mai
in Francia e in Germania (dove pure esiste questo fenomeno) il dato si
ferma all’8 per cento? In Italia si è stabilita una sorta di iniquo
patto sociale per cui da un lato il governo fa finta di tassare
pesantemente le imprese e dall’altro queste fanno finta di pagare le
tasse. Questi sono i meccanismi su cui occorrerebbe metter mano per
rendere disponibili le risorse da destinare all’occupazione. E poi si
deve ribaltare l’idea che i beni pubblici vanno affidati al privato
perché più efficiente. È una affermazione che non sta né in cielo né in
terra. Numerosissimi documenti affermano che non esiste nessuna
correlazione tra efficienza e produzione privata di beni. Ci sarebbero
molte cose da fare, ma in primo luogo sarebbero necessari elettori
consapevoli e forze politiche disponibili a mettere in campo progetti
di questo tipo. Devo amaramente riconoscere che non esiste – purtroppo
– questa prospettiva per l’oggi e temo neppure per il domani.(Da
Rassegna.it di Roberta Lisi)
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