In questi primi giorni di settembre i genitori e gli studenti italiani hanno rivisto in tv le immagini di precari che protestavano davanti al ministero della Pubblica istruzione. La ragione di queste proteste? La decisione del governo Monti di bandire dopo più di dieci anni un concorso per assumere 12.000 insegnanti.
Secondo chi protesta, questo concorso lede il «diritto acquisito» di chi ha vinto un concorso più di 10 anni fa e, non risultando ai primi posti, non è stato assunto a tempo indeterminato, rimanendo nelle cosiddette «graduatorie» di precari della scuola o occupandosi d’altro. Chi protesta lo fa anche se il concorso gli offre la possibilità di partecipare e, se lo merita, di vincerlo: deve però rimettersi nuovamente in gioco. E le proteste non si calmano neanche se altri 12.000 posti verranno assegnati senza concorso attingendo alla famose graduatorie. Chi sta dalla parte dei precari (i sindacati, alcuni politici, alcuni giornalisti) ha però difficoltà a rispondere alla domanda: «Quale insegnante preferireste per vostro figlio, una signora 45enne oggi al numero 152 della graduatoria di merito di un concorso di 10 anni fa, o una giovane trentenne che è risultata tra i primi a un concorso fatto in questi giorni?».
Perché è così difficile rispondere a questa domanda apparentemente banale? Perché in Italia negli ultimi 25 anni si è diffusa una mentalità devastante che ha di fatto ucciso la meritocrazia nelle nostre scuole: il pensare sempre e solo ai problemi di chi lavora nella scuola (gli insegnanti) dimenticando le esigenze dei «clienti» del servizio pubblico della istruzione (gli studenti). Questo atteggiamento perverso è una delle cause principali di quello spread oggi ormai tristemente noto alla maggioranza degli italiani: in Paesi con un ottimo sistema di istruzione come la Finlandia, le scuole producono in proporzione tre volte più giovani eccellenti che in quelle italiane. Inoltre la media dei nostri giovani che escono dalle scuole e dalle università è molto meno preparata, con gravi conseguenze per la crescita complessiva dell’economia. Una società come la nostra, oltre a rendere tutti più poveri, è anche spaventosamente ineguale, perché per esempio i giovani del Sud sono discriminati da una scuola di minor qualità: i test Pisa pongono le scuole del Sud a livello dell’Uruguay e della Thailandia.
Il concorso bandito dal governo Monti è quindi giusto, anche se è solo un piccolissimo passo avanti nella direzione di miglioramento, perché se da un lato avremmo finalmente (forse) 12.000 insegnanti selezionati con qualche criterio di merito, resta la totale assenza di meritocrazia per gli altri 700.000. Per i quali il problema non è solo sul come sono stati selezionati (male, perché molti sono stati selezionati senza concorso, ma purtroppo oggi su questo si può fare ben poco), ma su come sono formati, aggiornati, valutati, (non) esposti a suggerimenti su come migliorare il loro modo di insegnare e, soprattutto, motivati e remunerati (tutti poco e in maniera uguale). I bravi (e ce ne sono tantissimi ma purtroppo non si può sapere in maniera oggettiva quali sono) si aggiornano e motivano da sé, ma moltissimi lasciano perdere e le differenze di qualità dell’insegnamento crescono a dismisura. Il problema è noto da tempo ma purtroppo stenta a decollare un programma per avviare un serio processo di valutazione della qualità dell’insegnamento nelle scuole e di responsabilizzazione dei loro presidi e insegnanti. Ciò avverrebbe grazie a ispettori che le visitano periodicamente, valutandone la qualità dell’insegnamento basandosi su criteri oggettivi, quali per esempio i risultati delle prove Invalsi (le scuole che hanno più studenti con risultati migliori hanno insegnanti migliori).
Oggi questo programma non sembra tra le priorità del governo Monti, probabilmente perché richiede diversi anni. Ma ci sono comunque due cose che il neoministro dell’Istruzione potrebbe fare già oggi. Innanzitutto, invece di parlare ogni settimana di una nuova iniziativa (i licei sportivi, le collaborazioni internazionali, — ecc. ecc., vedi l’articolo di Sergio Rizzo su questo quotidiano), dovrebbe chiaramente definire che il programma di valutazione e di responsabilizzazione delle scuole italiane è una delle principali priorità sue e di chi gli succederà. Comunicare con chiarezza a milioni di famiglie italiane la gravità del problema e le priorità per risolverlo è essenziale per ottenere un cambiamento di mentalità e sconfiggere le forze che si oppongono al cambiamento. Purtroppo, questa comunicazione è oggi confusa e non parla al cuore e alle menti di quelle famiglie italiane che sono maggiormente penalizzate da questo disastro, come per esempio quelle del Centro-Sud Italia.
Secondariamente, il ministro potrebbe imporre di rendere immediatamente pubblici i risultati delle prove Invalsi, così che i genitori possano avere qualche riferimento oggettivo sulle scuole dove studiano i propri figli. Si inizierebbe così a rendere trasparente la qualità dell’insegnamento scolastico, così cruciale per lo spread e soprattutto per il futuro di milioni di giovani italiani
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