Egregio Direttore,
sento il bisogno di parlare con lei sin da quando ha dato inizio alla
sua settimana a “Prima pagina” su Radio3, trasmissione che ascolto da
anni per avere un panorama equilibrato della rassegna dei quotidiani
nazionali e che lei conduce in maniera particolarmente sensibile,
oltreché brillante sin dal modo sentito in cui legge i giornali. E
anche per questo la ringrazio.
Sono un’insegnante, ho due lauree, sono plurispecializzata e
perfezionata, quasi “addottorata” in Filosofia della politica, insegno,
grazie all’ultimo concorso a cattedra, con serietà e passione
crescente, nonostante tutto, Storia e filosofia in un liceo classico di
Messina. Mi sento insopportabilmente offesa nella mia dignità di
persona a causa dei maltrattamenti che i docenti seri da decenni sono
costretti a subire per via di un indecoroso riconoscimento economico
che ovviamente ne ha svalutato la considerazione sociale, e che io
ironicamente definisco un acconto per le spese di autoaggiornamento o
per il viaggio, pensando a chi deve percorrere centinaia di chilometri
per raggiungere la sede di lavoro senza che neanche gli sia
riconosciuta l’indennità di trasferta o il buono pasto. Non faccio
un’ottusa difesa di categoria. So bene, essendo anche genitore e quindi
avendo il privilegio di guardare da un altro punto di vista, che tra i
molti docenti onestamente impegnati, perché consapevoli di sapere di non sapere
mai abbastanza, ovvero definitivamente ed esaustivamente, ce ne sono
forse altrettanti che imperdonabilmente fanno i lavativi, non solo
tradendo il compito di educare attraverso l’informazione, che
doverosamente dovrebbero continuamente aggiornare, ma ancor più
gravemente deprivando, attraverso una pessima testimonianza etica, le
giovani generazioni di quel patrimonio umano di cui naturalmente sono dotate.
Patrimonio che deve essere culturalmente
sollecitato e sviluppato, pena il suo isterilimento. So bene, quindi,
che molti si sono ritrovati a svolgere questa professione non sulla
base di una motivata, deliberata e consapevole, scelta, ma,
egoisticamente, sulla base dell’immaginario comune da mitica leggenda
metropolitana che il lavoro del docente corrisponda alla "pacchia dei
pomeriggi liberi e dei tre mesi di vacanza”. Luogo comune stereotipato
e indebitamente falsato, in vero, solo da chi superficialmente scambia
il risultato e il prodotto di un'attività - il tempo in aula -con
l'interezza del complesso e delicato procedimento necessario per
conseguirlo quotidianamente. Insomma, è evidente che considero
l’assurdo contenuto della legge di stabilità in merito all’aumento
della quantità delle ore settimanali da trascorrere in classe come la
classica goccia capace di far traboccare un vaso già colmo di
ingiustizie e cieche ottusità che, tra l’altro, si manifestano, apro
una parentesi, anche nell’annunciato modo di reclutare i nuovi docenti,
attraverso stupidi test validi solo per accertare un nozionismo gretto
e meschino superato dal più piccolo supporto magnetico. Ma tornando
alle ventiquattro ore settimanali mi chiedo: si vuole avere un minimo
di buon senso nel considerare che chi lavora seriamente, con scienza e
coscienza, ne fa già almeno il doppio delle 18 previste ufficialmente
dal contratto (e comunque, come ho già detto, neanche queste
adeguatamente retribuite)? Si vuole o no considerare che un docente di
scuola superiore, data la fine degli esami di stato intorno a metà
luglio e lo svolgimento degli “esami di riparazione” collocati a fine
agosto, rischia di non riuscire a fruire neanche dei trenta giorni di
ferie, il periodo del godimento del quale, tra l’altro, non può neanche
scegliere come qualsiasi altra categoria? E' quantificabile il tempo
investito a casa quando con serietà, impegno e passione, si trascorrono
i pomeriggi non solo per predisporre e correggere le verifiche o
prepararsi quotidianamente le lezioni – come da più parti si sottolinea
riduttivamente -, ma anche e fondamentalmente per fare ricerca
scientifica didatticamente funzionale a migliorare la qualità delle
proprie competenze? Anche quando fossero già di per sé elevate non
devono queste essere necessariamente sempre aggiornate, affinate,
individualizzate poiché destinate ad esseri umani da educare, ciascuno
meravigliosamente diverso dall’altro, e che, per ovvi motivi, hanno
diritto ad esigere una presenza autorevole,
attiva e creativa, in grado di appassionare solo se a sua volta
appassionata, e quindi, tra l’altro, non affaticata dal sovraccarico di
lavoro frustrato, oltre tutto, dall'indegnità dell'inadeguato
riconoscimento economico? Certamente tutto questo non può capire chi
basandosi sulla diffusa costatazione che molti dei docenti non si
impegnano adeguatamente ritiene superficialmente di poter
sbrigativamente risolvere i problemi economici del Paese con criteri
meramente quantitativi che, di fatto, impedendo nuove assunzioni, si
limitano semplicemente a sfruttare gli onesti. Ma si pensa ai soldi che
si sperperano (tribunali, carceri, centri di recupero...) quando
bisogna riparare i danni gravissimi della diseducazione e maleducazione
imperante e sempre più emergente causata anche da una scuola inefficace
ed inefficiente?
Una
proposta seria: che si abbia il coraggio finalmente di
cominciare a valutare l'attività dei docenti (considerandone i titoli,
effettuando concorsi in itinere, 'ispezionando' il lavoro in aula e la
capacità di documentarlo) in maniera tale da valorizzare chi
effettivamente considera questa professione una vera e propria missione
sociale e in maniera tale da licenziare, eventualmente, o comunque non
premiare stipendialmente, chi invece lavora solo per quelle, in atto,
18 ore limitandosi ad assicurare esclusivamente la propria presenza
fisica. La ringrazio per l’attenzione, con stima,
Patrizia
Salvatore - Pubblico giornale
patrizia.salvatore@istruzione.it