Quel che il
“capitale”, come si sarebbe detto un tempo, sta ormai da decenni
attuando su scala mondiale è infatti un
generalizzato livellamento dei diritti umani, un ribasso dei costi del
lavoro, un assottigliamento delle garanzie che trova il suo
epicentro in quelli che un tempo – altra dicitiura d’antan- si
chiamavano Paesi in via di sviluppo. Rincorrendo la riduzione dei
costi, il lavoro si sposta nei luoghi in cui vien pagato meno e in cui
le garanzie sono più sottili: prima l’India, poi il Vietnam e la
Thailandia, infine la Cina.
Lo ha fatto per anni anche il “sistema Italia”, un tempo più
facilmente, quando complice la lira e la cosiddetta svalutazione
competitiva pre-euro, era più facile esportare capannoni e macchinari e
metter alla catena di montaggio personale pagato un terzo di quello
nostrano. Lo ha fatto fino ad ieri perfino la nostra multinazionale per
eccellenza: prima con impianti polacchi, poi con quelli serbi, la Fiat
ha messo in concorrenza Pomigliano e Mirafiori con l’Est europeo,
contratto e salari contro contratto e salari. E così abbiamo fatto nel
tempo con l’Albania, le ex repubbliche sovietiche, il far East.
Ora scontiamo, e non solo in Italia, questa rincorsa al ribasso del
costo del lavoro e alla svalutazione delle garanzie. La scontiamo in
casa nostra: uomini che muoiono aggrappati alle inferriate, bruciati
dal rogo delle loro celle di lavoro, non sono che l’effetto di rimbalzo
di questa dinamica, non solo italiana, tratto caratterizzante di quella
che uno studioso come Luciano Gallino chiama “l’offensiva su scala
mondiale del capitale finanziario”. La ricerca a oltranza del lavoro
sottopagato, e la guerra alle garanzie che esso ha portato su scala
globale ha spostato il “lavoro infame” per tutto il mondo, fino a
riportarlo al punto d’origine. Così quel che abbiamo raccontato in
questi anni delle frontiere della globalizzazione – Cina compresa
– ora tocca dirlo di casa nostra.
Ecco perché questi sono morti nostri. Perché, al netto della
proverbiale chiusura che caratterizza la comunità cinese, sono il
boomerang della globalizzazione che abbiamo mal gestito.
Vista da questo punto di vista è una sfida di ampia portata quella che
spetta al sindacato e non solo. Difendere le garanzie del lavoro e il
livello dei salari innanzitutto nei luoghi di “destinazione” -
India, Vietnam, Thailandia, Cina – per obbligare “il capitale” ad
alzare la soglia anche in Occidente. Limitando l’erosione continua di
diritti e garanzie che poi fatalmente finiamo per scontare in casa
nostra. Una lotta globale per ridare dignità al lavoro è l’unica
ricetta – certo di lungo periodo e di difficile realizzazione -
che ci consenta di uscire dalla emotività delle reazioni di getto. E ci
permetta di ragionare sul lungo periodo. Partendo però da una
premessa: non voltiamo la faccia, i morti di Prato parlano di noi. E
dei nostri diritti.
Famigliacristiana.it