di Francesco
G. Nuzzaci, segretario Dirigentiscuola della Puglia.
( Il presente contributo è stato scritto per la rivista Scuola
& Amministrazione, numero 1 di gennaio 2014,nel suo nuovo formato
telematico. Lo riportiamo qui per volontà dell’autore e con il permesso
dell’editore).
La Corte costituzionale.In un prezioso libretto d’una decina di anni
fa,scritto a più mani dai suoi stessi protagonisti per gli studenti
della scuola secondaria superiore,si dice che la Corte costituzionale è
un giudice molto particolare.
Lo è,anzitutto, per la sua composizione: quindici esperti tecnici del
diritto,di cui cinque magistrati di carriera,appartenenti alle supreme
magistrature e dalle medesime designati(tre espressi dalla Corte di
cassazione,uno ciascuno dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei
conti),dieci professori universitari ordinari e/o avvocati con almeno
vent’anni di esercizio,per una metà eletti dal Parlamento,per l’altra
nominati dal Presidente della Repubblica,normalmente in funzione di
integrazione e di riequilibrio rispetto alle scelte effettuate dalle
due Camere in seduta comune.
In tal modo la Corte costituzionale si vuole che sia lo specchio il più
possibile fedele del pluralismo politico,giuridico e culturale del
Paese. Perché,a differenza dei comuni organi
giudiziari(ordinari,amministrativi,contabili e delle giurisdizioni
speciali),non è propriamente chiamata ad applicare le leggi( il
che,peraltro,non costituisce un’operazione soltanto
tecnico-giuridica),bensì a giudicarne la conformità alla
Costituzione,con valutazioni che – sebbene pronunciate in punto di
diritto – richiedono,in senso lato,una sensibilità “politica”,che si
alimenta di un dialogo costante con i giudici comuni e – non meno – con
le supreme istituzioni politiche esercitanti il potere legislativo: il
Parlamento,espressione della generale sovranità popolare,ma anche il
Governo-legislatore,che invece – nell’interpretare gli interessi
generali – è comunque espressione di una maggioranza politica(nonché,e
pur sempre,datore di lavoro nel pubblico impiego).
Certamente,la cennata sensibilità è pure intrinsecamente esigita dalla
stessa formulazione del testo costituzionale,che contiene sì precise
disposizioni( costrutti linguistici di senso definito,da cui
enucleare,con una più o meno agevole operazione ermeneutica,la norma:
cioè la regola da far valere nella soluzione del caso concreto
sottoposto alla cognizione del giudice),ma anche principi,cioè
enunciati generici ed elastici,da cui dedursi la norma alla luce dei
cangianti contesti,dell’evoluzione sociale dei costumi,dei valori e
delle diverse visioni,che una comunità esprime nel tempo.
Senonché la sensibilità
“politica”,nell’interpretare(rectius,ricavare)la norma,può travalicare
in un “giudizio politico”: che risponde al – proprio –
criterio,soggettivo,dell’utile (o del giusto,dell’opportuno),e non al
criterio del vero,secondo i canoni intersubiettivi posti dalla scienza
giuridica,che vincola ogni giudice,nell’interpretare e applicare la
norma,al solo imperio della legge. Di conseguenza,può verificarsi ,più
che una fisiologica e dialettica interferenza,un contrasto con il
potere legislativo; che comunque,in qualche misura,possiede gli
strumenti per riappropriarsi delle sue prerogative. Può però,non di
meno,consumarsi una compressione dei diritti dei cittadini sulle
materie sottoposte al vaglio di costituzionalità – e non sempre di
tutti i cittadini – ,senza che vi siano dispositivi ripristinatori
nell’ordinamento,siccome – è noto – trattasi di statuizioni ex se
definitive,spieganti altresì,a differenza delle sentenze emesse dai
giudici comuni, validità erga omnes(sostanzialmente,creano diritto in
senso oggettivo),dunque inappellabili.A meno che non vi provveda la
stessa Corte.
Si legge infatti,sempre nel libretto da cui si son prese le mosse per
queste notazioni introduttive,che la Corte costituzionale può ben
mutare opinione su una questione – sulla stessa questione – già decisa
in modo opposto,in seguito a differenti e/o nuove prospettazioni dei
giudici remittenti.
Non è frequentissimo,perché la lunga durata del mandato(nove anni),i
complesssi meccanismi di designazioni-elezioni-nomine peraltro sfalsate
nel tempo,la collegialità piena delle decisioni(occorre sempre la
presenza di almeno undici dei quindici componenti
l’assise)costituiscono fattori di una strutturale stabilità delle
decisioni(tecnicamente,della sua giurisprudenza).
Non è frequentissimo,ma può esserlo,anche a brevissima distanza di
tempo,poco più di un anno,come nel caso qui in trattazione.
Inversione dell’ordine espositivo
E’ del 17 dicembre la sentenza numero 310/13, che ha ritenuto
legittima la reiterazione del blocco delle retribuzioni per il
personale in regime di diritto pubblico e,a fortiori e per le
motivazioni ivi esposte,per quello contrattualizzato; con un clamoroso
ribaltamento dell’impostazione argomentativa figurante nella precedente
sentenza,sull’identica materia,n. 223 dell’8 ottobre 2012,resa dagli
stessi undici giudici tuttora in carica,unitamente ai subentrati a
coloro medio tempore cessati Tal che sarà,ora, solo ed esclusivamente
il pubblico impiego ad accollarsi un persistente sforzo solidaristico,
che dura dal 2009 e che,a questo punto,esclusa comunque ogni
possibilità di recupero,non è dato di prevedere quando potrà cessare.
Per comprendere,per primi noi stessi,nella massima misura consentita
dalle nostre capacità,le performance degli illustri giudici del Palazzo
della Consulta esibite nella sentenza che ha chiuso il 2013, la
linearità(e la plausibilità) dei loro passaggi argomentativi sub specie
iuris,la stessa cifra della loro “sensibilità politica”,è bene
partire da una più analitica disamina della sentenza 223/12; il
che ci consentirà altresì di realizzare un’economia espositiva sulla
parte centrale della trattazione.
Investita da una serie di ordinanze di remissione da parte di
quindici,sui ventitré,TAR della Repubblica,aditi da magistrati
ordinari,amministrativi e contabili,la Corte costituzionale ha
pronunciato l’illegittimità di diverse disposizioni del decreto legge
78/10,convertito nella legge 122/10,per violazione degli articoli della
Carta fondamentale: 2(principio solidaristico),3(principio
dell’uguaglianza),23(principio dell’imposizione personale o
patrimoniale solo in base a una legge),24(inviolabilità della difesa in
giudizio dei propri diritti e interessi legittimi),36(giusta
retribuzione),42(divieto di espropriazione,se non nei casi preveduti
dalla legge per motivi d’interesse generale e salvo
indennizzo),53(universalità e progressività del sistema
tributario),97(imparzialità e buon andamento
dell’amministrazione),101(soggezione dei giudici solo alla
legge),100,104,108(autonomia e indipendenza della magistratura da ogni
altro potere),111(giusto processo),113(pienezza della tutela
giurisdizionale),117(vincolo dell’ordinamento comunitario e degli
obblighi internazionali con riguardo all’art. 6 della Convenzione
internazionale dei diritti dell’uomo,concernente ancora il giusto
processo).
Poiché le questioni avevano ad oggetto,in larga parte,le stesse
norme,censurate con argomentazioni anch’esse in larga misura
coincidenti,la Corte aveva disposto la riunione dei giudizi,ai fini di
un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.
Nell’ordine:
1. E’ dichiarata l’illegittimità del’art.
9,comma 22 del d.l.78/10, laddove,in concreto,prevede per il personale
della magistratura,di cui alla legge 27/81(magistrati,avvocati e
procuratori dello Stato),il blocco della retribuzione complessiva ai
livelli del 2010,con gli inerenti recuperi degli acconti già
corrisposti e la riparametrazione del conguaglio per l’anno 2015:ciò
che costituisce il parallelo del blocco nei confronti dei pubblici
dipendenti contrattualizzati.
Per la Corte la preservazione dell’indipendenza e dell’autonomia della
magistratura impone la sua sottrazione ad una dialettica
contrattualistica col datore di lavoro pubblico(lo Stato) ,così come
parimenti impone l’integrità e l’immodificabilità degli automatismi
della retribuzione,in definitiva per non dipendere dall’arbitrio di un
altro potere. Al riguardo,vengono richiamate le sentenze
1/78,238/90,42/93 e le ordinanze 137 e 346 del 2008,supportate dai
lavori preparatori dell’Assemblea costituente a sostegno dell’assunto
secondo cui di cui “Il rapporto fra lo Stato e la magistratura, come
ordine autonomo e indipendente,eccede i connotati di un mero rapporto
di lavoro,in cui il contraente-datore di lavoro possa al contempo
essere parte e regolatore del rapporto”.
In precedenti circostanze(sentenza 245/97,ordinanza 289/99) misure
finanziarie restrittive per il pubblico impiego erano state legittime
perché “eccezionali,transeunte,non arbitrarie e consentanee allo scopo
prefisso”:di riequilibrio della finanza pubblica,siccome limitate a un
solo anno. Ma,nel caso di specie,i limiti sono stati irragionevolmente
superati,peraltro spiegando un effetto ultroneo,sino a tutto il
2015,rispetto all’intervento emergenziale stabilito dal legislatore per
il triennio 2011-2013(poi prorogato sino al 31 dicembre 2014:
infra),suscettibile di determinare effetti permanenti del blocco
dell’adeguamento soltanto per le categorie incise,con conseguente
violazione dell’art. 3 cost.(oltre ai menzionati principi
costituzionali posti a presidio dell’indipendenza e dell’autonomia
della magistratura) e dell’art. 53,codificante – lo si ricorda – il
principio dell’universalità e della progressività del sistema
tributario.
Quanto alla violazione dell’articolo 3,è ben evidente come “la
disciplina in esame realizzi un’ingiustificata disparità di trattamento
fra la categoria dei magistrati e quella del pubblico impiego
contrattualizzato,che vede limitata la possibilità di contrattazione
soltanto per un triennio”.Perché – proseguono i giudici della Consulta
– “il fatto che i magistrati,esclusi dalla possibilità di interloquire
in sede contrattuale,si giovino degli aumenti contrattuali soltanto con
un triennio di ritardo,salva la previsione di acconti,non può
consentire di arrecare esclusivamente ad essi un ulteriore
pregiudizio,consistente non soltanto nella mancata progressione
relativa al triennio precedente,ma anche conseguente all’impossibilità
di giovarsi di quella che nella contrattazione nel pubblico impiego
potrebbe raggiungere oltre il triennio di blocco. In questo
caso,l’intervento normativo censurato,oltre a superare i limiti
costituzionali indicati dalla giurisprudenza di questa Corte,che
collocava in ambito estremo una misura incidente su un solo
anno,travalica l’effetto finanziario voluto,trasformando un meccanismo
di guarentigia in motivo di irragionevole discriminazione. In
definitiva,la disciplina censurata eccede i limiti del raffreddamento
delle dinamiche retributive,in danno di una sola categoria di pubblici
dipendenti”.
Quanto alla violazione dell’articolo 53,non è meno evidente che
l’intervento del Governo,qui censurato,solo formalmente è ascrivibile a
misure preordinate al mero risparmio di spesa,peraltro non distribuita
sull’intera platea dei contribuenti. Perché,in concreto,esso riveste
natura tributaria,atteso che – secondo consolidata giurisprudenza della
Corte: in particolare, sentenze 245/97 e 299/99 – è dato qui ravvisarsi
la concorrenza dei tre elementi indefettibili di ogni fattispecie
tributaria: prestazione imposta in via autoritativa e in assenza di
sinallagma(perché in capo al soggetto passivo non corrisponde
un’attenuazione delle proprie obbligazioni); consistente in
un’ablazione di somme di denaro(direttamente o indirettamente,poco
importa);destinate allo scopo di approntare mezzi per il fabbisogno
finanziario dell’ente stesso(cioè del Governo,nella sua qualità di
legislatore materiale e non di datore di lavoro) a fini generali e
senza specifiche e predefinite destinazioni.
Se così è – ancor più perché trattasi di misure dichiarate eccezionali
e prive di ulteriori riflessi – allora risultano violati i principi di
universalità (tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche…) e
di progressività(…in ragione della loro capacità contributiva).
E se la norma non avesse una natura tributaria,comunque “sarebbe
incontestabile la sua natura sostanzialmente espropriativa,dal momento
che determinerebbe una vera e propria ablazione di redditi formanti
oggetto di diritti quesiti,senza alcuna indennità. In tal
senso,infatti,non potrebbe dubitarsi del fatto che il fenomeno
espropriativo possa astrattamente colpire anche beni mobili
fungibili,quali il denaro (nella specie,gli stipendi pubblici),sicché
si tratterebbe altresì di una norma-provvedimento,con conseguente
violazione dell’art. 97 cost.,avendo tale norma mutuato la natura del
provvedimento,elidendone la fase del procedimento,deputata,fra
l’altro,alla partecipazione degli interessati,al fine di interloquire
sulla legittimità e sull’opportunità delle scelte cui sono chiamati a
contribuire con il loro sacrificio.”
2- Illegittimità,sempre del comma 22,nel punto in cui riduce
l’indennità giudiziaria del 15%,25%,32%,rispettivamente per gli anni
2011,2012 e 2013.
Dovendosi ritenere la predetta indennità di natura retributiva( e
quindi anch’essa di natura tributaria),facendo ordinariamente parte del
trattamento economico complessivo e continuativo di ogni magistrato
nell’espletamento della sua funzione,l’effetto sarebbe addirittura
regressivo,perché percentualmente sono in misura maggiore colpite le
retribuzioni,più basse,dei magistrati con minore anzianità di servizio.
E,sempre qualora essa non dovesse rivestire natura tributaria,sarebbe
pur sempre da censurarsi l’ingiustificata disparità di trattamento con
riguardo alle indennità percepite dagli altri dipendenti statali,non
assoggettate,negli stessi periodi d’imposta,ad alcun prelievo
tributario aggiuntivo. Di più,il mancato rispetto dei canoni della
ragionevolezza e dell’eguaglianza emergerebbe dal fatto che la precipua
funzione dell’indennità giudiziaria è di “compensare l’attività dei
magistrati di supplenza delle gravi lacune organizzative dell’apparato
della giustizia”. E tanto basta,”restando assorbite le ulteriori
censure”.
3- Illegittimità dell’articolo 9,comma 2: questa estesa a tutti i
pubblici dipendenti – magistrati compresi – nei cui confronti è stata
imposta la riduzione dei compensi del 5% sugli importi superiori ai
novantamila euro annui lordi e del 10% fino a centocinquantamila e
importi superiori.
Non può dubitarsi – per le regioni dianzi esplicitate – della stessa
natura tributaria delle altre disposizioni impugnate,quindi parimenti
esposta ai,sanciti,rilievi d’incostituzionalità: per non essere
universale siccome prevista a carico dei soli pubblici dipendenti,e per
non essere progressiva,dato che la riduzione del 10%,per le complessive
retribuzioni da novantamila a centocinquantamila euro rimane immutata
oltre i centocinquantamila.
D’altro canto,il legislatore,pur avendo richiesto(nell’articolo 2 del
decreto legge 138/11) il contributo di solidarietà del 3% sui redditi
annui superiori a trecentomila euro,preordinato sempre al reperimento
di risorse per la stabilità finanziaria( quindi,di inequivoca natura
tributaria),ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti
pubblici,per la medesima finalità,l’ulteriore speciale prelievo
tributario oggetto di censura. Sicché,nel caso in esame,
“l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato,ma
nella ingiustificata limitazione del novero dei soggetti passivi”,così
sortendosi “un irragionevole effetto discriminatorio”.
4- Illegittimità dell’articolo 12,comma 10, laddove nel passaggio – a
decorrere dall’1 gennaio 2011 – dal TFS(trattamento di fine servizio)
al TFR(trattamento di fine rapporto), secondo la generale disciplina
privatistica dell’art. 2120 c.c.,non è stata esclusa la trattenuta del
2.50% a carico del dipendente pubblico.
Vi è però da aggiungere che,sul punto,è fulmineamente intervenuto un
decreto legge del 26 ottobre 2012,abrogativo del predetto comma 10 a
far data dal primo gennaio 2011. Pertanto – per la salvaguardia di
immediate esigenze di cassa – non è stata disposta l’altrimenti
obbligata restituzione alla larga platea degli interessati,ma è stata
prontamente ripristinata la pregressa normativa,per gli stessi più
favorevole,ai fini della corresponsione della buonuscita.
5- Manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 17,comma 7,inerente le modalità di
corresponsione della predetta buonuscita, frazionata in due o tre rate
annuali: per non avere riferito nessuno dei remittenti di essere
investito di una domanda da parte di un magistrato in quiescenza,per
qualunque causa,in epoca successiva al 30 novembre 2010( data di
entrata in vigore della norma contestata) e ne abbia perciò subito gli
effetti. Per cui, “l’assenza di un pregiudizio e di un interesse
attuale a ricorrere rende evidente come i rimettenti non debbano fare
applicazione della norma impugnata. Inoltre,neppure risulta individuato
alcun immediato pregiudizio subito dai magistrati in
servizio,diverso dalla rateizzazione,che essi subiranno nel momento del
collocamento a riposo per raggiunti limiti di età,il giorno successivo
a quello del compimento del settantesimo anno di età o a quello fissato
nel provvedimento di trattenimento in servizio,ovvero per anzianità di
servizio,ovvero per dimissioni”.
Ciò non toglie – pensiamo sia opportuno rimarcarlo – che,secondo i
principi,qualora in un nuovo ed autonomo giudizio la questione dovesse
essere riproposta e la Corte dovesse stimarla rilevante per la
decisione del giudice a quo,ed ovviamente sussistendo l’interesse
diretto,concreto e attuale del ricorrente,potrebbe ben arrivarsi, nel
merito,alla declaratoria di incostituzionalità del frazionamento della
buonuscita,ora prorogato,ed aggravato,dalla legge 147/13: in specie
perché non vengono corrisposti – per quella che è una retribuzione
differita,alimentata da contributi forzosamente versati,sia dal datore
di lavoro che(ancora)dal lavoratore(pubblico) in costanza di rapporto –
gl’interessi sulle somme spettanti e dilazionate,in violazione della
disciplina civilistica sulle obbligazioni pecuniarie.
La plausibilità di quanto testé asserito trova un immediato e
significativo riscontro nella stessa sentenza in commento,nel punto in
cui i commi 2 e 9,art. 22,d.l. 78/10 – subito dopo colpito da
declaratoria d’incostituzionalità – nelle prospettazioni dei TAR
Abruzzo e Umbria,in sede di vaglio preliminare,non erano riusciti ad
accedere al merito,essendo stata dichiarata la manifesta
inammissibilità della questione,può dirsi per un vizio tecnico insito
nelle ordinanze di remissione. Testualmente, “In particolare,il TAR per
l’Abruzzo,dopo aver premesso che i ricorsi proposti riguardano le
decurtazioni conseguenti all’applicazione dell’art. 9,comma 22,conclude
affermando che le medesime censure enucleate con riguardo a tale ultima
norma varrebbero,a maggior ragione,per il prelievo disposto dal comma
2,in quanto incidente direttamente sul trattamento stipendiale dei
ricorrenti.
Analogamente,il TAR per l’Umbria…premette che i ricorrenti si dolgono
del mancato adeguamento automatico delle proprie retribuzioni,nonché
della decurtazione subita dell’indennità giudiziaria ad essi spettante.
Prosegue,altresì,affermando come risulti rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale del comma 22
dell’art. 9 e,tuttavia,procede in conclusione ad impugnare anche la
norma contenuta nel citato comma 2,relativa alla riduzione del
trattamento economico complessivo superiore ai 90.000 euro ed a 150.000.
In entrambi i casi,poiché tale profilo del trattamento economico non
aveva fatto parte dei motivi di ricorso delle parti del giudizio,la
questione di legittimità costituzionale risulta manifestamente
inammissibile,in quanto sollevata in relazione ad una norma di cui il
giudice rimettente non deve fare applicazione nel giudizio a quo”.
Dunque,secondo le prospettazioni dei TAR remittenti,condivise dai
supremi giudici togati, “la novellazione oggettiva ed unilaterale del
rapporto di lavoro,realizzata con il d.l. 78/10,oltre a tradursi nel
grave scardinamento del principio costituzionale di proporzionalità e
adeguatezza della retribuzione,sacrificherebbe la stessa dignità
sociale della persona-lavoratore,che si trova soggetto,senza
possibilità di difesa,ad aggressioni patrimoniali arbitrarie non solo
nelle modalità del prelievo,ma nello stesso presupposto,perché a
determinarlo è lo stesso soggetto(Stato) che opera il
prelievo,avvalendosi della forza derivante dall’essere ad un tempo
datore di lavoro e legislatore;che in effetti ha posto in esssere una
manovra irrazionale,spropositata,discriminatoria…e sostanzialmente
inutile”.
E’ certo – viene precisato in sentenza – che sono costituzionalmente
legittimi interventi discriminatori astrattamente lesivi del principio
di uguaglianza,e delle prerogative di indipendenza e autonomia della
magistratura,purché circoscritti nel tempo e non trasmodanti. Ciò
invece si è proprio verificato,nel mentre ben avrebbe potuto,e
dovuto,il legislatore rispettare i principi di eguaglianza dei
cittadini e di solidarietà economica, “anche modulando diversamente un
universale intervento impositivo…nel difficile compito di contemperare
il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi
e la protezione di cui tutti i cittadini necessitano”.Perché,se pure
“l’ordinamento costituzionale…non è indifferente alla realtà economica
e finanziaria,con altrettanta certezza non può consentire deroghe al
principio di uguaglianza,sul quale è fondato”.
Inopinato revirement
Con nove ordinanze di remissione,sette TAR,aditi da docenti
universitari tra maggio 2012 e marzo 2013,avevano nel complesso
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 9,comma
21,primo,secondo e terzo periodo del d.l. 78/10,per violazione di buona
parte degli stessi articoli della Carta fondamentale censurati un anno
prima dai ricorrenti magistrati,anch’essi pubblici dipendenti non
contrattualizzati. Sono esclusi quelli riguardanti nello specifico la
magistratura, ma vengono richiamati in parallelo l’articolo 9(che
impone alla Repubblica di promuovere lo sviluppo della cultura e la
ricerca scientifica e tecnica) e l’articolo 33(che dichiara,nel primo
comma,la libertà dell’arte e della scienza e il loro libero
insegnamento,perciò attribuendo,nell’ultimo comma,alle istituzioni di
alta cultura,università ed accademie il diritto di darsi ordinamenti
autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato). Sicché i
ricorrenti,tra le altre doglianze e con le motivazioni che le
sorreggono,possono censurare come irragionevolmente penalizzanti “le
forti decurtazioni stipendiali…,in contrasto con le richiamate
disposizioni costituzionali che testimoniano la rilevanza sul piano
sostanziale della ricerca scientifica e dell’insegnamento,essendo in
particolare la centralità della ricerca scientifica richiamata
all’interno dei principi fondamentali”. Da qui l’asserita equivalenza
tra autonomia e indipendenza della magistratura e la libertà
d’insegnamento e di ricerca : per rivendicare le stesse prerogative che
i supremi giudici della Repubblica avevano già statuito, davanti
a se stessi!
Come risponde,nell’ordine, la Corte costituzionale alle formulazioni
dei diversi quesiti dei giudici remittenti?
1- Nelle misure finanziarie disposte dal
legislatore non sussiste,anzitutto, violazione dell’art. 77 cost. per
l’asserita mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza,perché
gli stessi sono in re ipsa nelle finalità di contenimento della spesa
pubblica. Che ora possono ben persistere per un tempo astrattamente
indefinito,”attese le esigenze di programmazione pluriennale delle
politiche di bilancio”.
2- Non sono fondate le censure concernenti il
mancato rispetto dei principi di progressività e di capacità
contributiva,in quanto “alle disposizioni in esame(ora) non può
riconoscersi natura tributaria,atteso che non danno luogo ad una
prestazione patrimoniale imposta,realizzata attraverso un atto
autoritativo di carattere ablatorio,destinata a reperire risorse per
l’erario”.Ma –lo si vedrà a breve – tali disposizioni non hanno
neanche natura provvedi mentale(sì da implicare una necessaria
partecipazione della categoria dei soggetti incisi).
3- Non c’è pertinenza,e quindi una necessaria
correlazione,tra l’autonomia – solo organizzativa – delle università e
istituzioni di alta cultura,strumentale alla libertà dell’arte e della
scienza e del loro libero insegnamento,e lo stato giuridico dei
professori universitari,”i quali sono legati da rapporto d’impiego con
lo Stato e sono di conseguenza soggetti alla disciplina che la legge
statale ritiene di adottare”.
Il reiterato richiamo della sentenza 223/13 ,che ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del blocco dei meccanismi di adeguamento
retributivo per il personale di magistratura,non può essere invocato
dai ricorrenti a fondamento delle loro ragioni,perché detta decisione
“va ricondotta alle specificità dell’ordinamento della
magistratura;specificità non sussistente nella fattispecie in esame”.
4- La censurata irragionevolezza del blocco
dell’adeguamento retributivo e del blocco della progressione economica
per classi e scatti,siccome non temporalmente limitati,quindi non
transeunti né eccezionali – perché previsti per tre anni e poi
quattro - ,deve “considerare l’evoluzione che è intervenuta nel
complessivo quadro,giuridico-economico,nazionale ed europeo”.
Al riguardo,mette conto rimarcare che la riforma costituzionale
dell’articolo 81(l. cost. n. 1 del 20-4-12) impone il pareggio di
bilancio,in ciò corrispondendo ai vincoli comunitari,particolarmente
significati dalla direttiva 8 novembre 2011,n. 2011/85/UE,del Consiglio
dell’Unione, evidenziante come “la maggior parte delle misure
finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il ciclo di
bilancio annuale”,e che “una prospettiva annuale non costituisce
pertanto una base adeguata per politiche di bilancio solide”.
Ragione per la quale i sacrifici,anche gravosi,imposti a tutto il
comparto – ma non è proprio così! – del pubblico impiego,in una
dimensione solidaristica,possono ben ritenersi circoscritti in un tempo
limitato,”che comprende più anni in considerazione della programmazione
pluriennale delle politiche di bilancio”
5- E’ priva di pregio la lamentata
discriminazione nei confronti di chi non dichiara le proprie
disponibilità economiche all’amministrazione finanziaria(chi evade il
fisco,insomma!),in quanto “il legislatore non potrebbe che operare su
altri piani,precipuamente fiscali,con meccanismi quindi non comparabili
con le misure in questione”.
Se poi,in generale,si intende contestare una disparità di trattamento
del lavoro pubblico rispetto a quello privato,”non può non rilevarsi
che le profonde diversità dello stato giuridico,si pensi alla minore
stabilità del rapporto, e di trattamento economico escludono ogni
possibilità di comparazione”.
6- La ragionevolezza delle norme impugnate non
viene neanche intaccata dalle “generiche e assertive doglianze relative
all’assenza di responsabilità dei cittadini gravati dalle misure in
esame …e alla mancata partecipazione degli stessi alle scelte di
politica economica”.
7- La prospettata disparità di trattamento
riservata ai ricorrenti rispetto agli avvocati e procuratori dello
Stato – anch’essi beneficiati dalla pluricitata sentenza
223/12,unitamente alle Forze di polizia – difetta della “mancata
considerazione,da parte dei remittenti,delle specificità di ciascuna
categoria professionale in regime di diritto pubblico”. La qualcosa
“priva le censure del necessario quadro di riferimento”(sic!).
8- Non è ravvisabile la lesione
dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica,poiché “ il
legislatore può anche emanare disposizioni che modifichino in senso
sfavorevole la disciplina dei rapporti di durata,anche se l’oggetto di
questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti,sempre che tali
disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale…situazione
che nella specie non può dirsi sussistente”.
9- Non c’è lesione dell’articolo 36 della
Costituzione e correlati(artt. 3 e 97),dato che nel caso di specie non
viene colpita la retribuzione nel suo complesso, né emerge “una
situazione che leda le tutele socio-assistenziali degli interessati e
dunque l’art. 2 cost.”
10- Il blocco delle classi e degli scatti non ha nessuna correlazione
con il meccanismo di valutazione della qualità dell’offerta
formativa,che non è connesso al solo sistema di avanzamento di carriere
dei docenti e dei ricercatori universitari,”che pertanto non risulta
compromesso”.
11- Infine,il dedotto profilo di illegittimità afferente ai differenti
effetti del blocco in ragione della diversa anzianità di servizio
maturata,non considera l’urgenza e l’ampiezza della manovra economica
contenuta nel d.l. 78/10,e “la sua stessa struttura(che) non
rendeva,dunque,possibile una frantumazione delle misure previste”.
D’altronde, “la materia attiene a scelte di politica economica e
sociale,che non spetta a questa Corte valutare…se non nei limiti della
evidente irragionevolezza,(e) non emergono elementi che possano indurre
ad una tale conclusione”. Se pure è particolarmente gravoso il
sacrificio imposto ai docenti più giovani,esso “appare,in quanto
temporaneo,congruente con la necessità di risparmi consistenti e
immediati”.
Riassumendo e concludendo
Andando a stringere,dal combinato disposto delle due sentenze esaminate
è dato di ricavare certezze cristalline e – al momento,purtroppo –
cristallizzate.
1- I supremi giudici della Corte
costituzionale, per primi e distaccandosi dai comuni mortali,si sono
autoesclusi da ogni sforzo solidaristico,unitamente ai magistrati
ordinari,amministrativi e contabili,nonché agli avvocati e procuratori
dello Stato(che peraltro magistrati non sono),allegando la “tutela e
garanzia della loro indipendenza…e per essere al riparo da ogni forma
di interferenza”.
Per loro,e solo per loro,il blocco delle retribuzioni è tam quam non
esset. Per fugare ogni equivoco il regolamento governativo di cui al
d.p.r. n.122 del 4 settembre 2013 – avvalendosi della facoltà figurante
nell’art. 6,comma 1,lett .b del decreto legge 98/11,convertito dalla
legge 111/11 – puntualizza che la proroga del blocco degli automatismi
stipendiali per i pubblici dipendenti non contrattualizzati a tutto il
2014 non si applica per il personale della magistratura,avvocati e
procuratori dello Stato.
Del pari,questa volta non solo per loro, si sono peritati ,dichiarando
l’incostituzionalità del c.d. contributo di solidarietà del 5%(sopra i
novantamila euro annui lordi) o del 10%(dai centocinquantamila ed
oltre),di preservare l’integrità delle loro retribuzioni – sui
quattrocentomila euro annui,benefits inclusi – e quelle dei colleghi
delle giurisdizioni inferiori, ammontanti,in media,a centoventimila
euro annui.
Ne hanno non meno beneficiato tutti i dirigenti pubblici,le cui
retribuzioni veleggiano tranquillamente,ed anche notevolmente,oltre la
soglia dei novantamila euro. Tutti i dirigenti pubblici,tranne i
dirigenti delle istituzioni scolastiche,astretti surrettiziamente in
un’autonoma area contrattuale all’interno del comparto scuola per
contemplarvi la loro sublime “ specificità” capovolta. E difatti,quanto
a remunerazione,sono agevolmente doppiati dai “generici”colleghi di
pari seconda fascia: operanti in strutture amministrative semplici,non
connotati dall’immedesimazione organica con un autonomo organo-ufficio
pubblico a rilevanza esterna,socialmente non esposti; privi di un
autonomo bilancio da gestire e di cui rispondere; non datori di lavoro
e quindi non gravati dalle inerenti e pesanti responsabilità
penali,civili,amministrative e contabili; attributari di competenze
raramente autonome e comunque nominate, prevalentemente delegate e/o di
supporto per la realizzazione di obiettivi e programmi circoscritti e
ben definiti,in ciò avvalentisi dell’opera di poche unità di persone( i
numeri dicono di una media di nove dipendenti per dirigente),quando non
si è dirigenti solo di se stessi!
Il predetto contributo di solidarietà risulta adesso,in esito
all’ultima legge di stabilità,riparametrato e traslato
sulle,presunte,pensioni d’oro,quelle da duemila euro netti mensili in
sù. E,astrattamente,sarebbe una misura più equa,se colpisse – come
sembrerebbe – anche la magistratura; mentre è particolarmente
odiosa,perché incide retribuzioni differite laddove siano integralmente
coperte da contributi ,per lo più forzosamente versati : ed è il caso
delle pensioni di “ottone”,dei duemila euro mensili netti o poco più.
Ma,allo stato e volendosi mantenere coerenti,è ragionevole presumere
che,qualora fosse sollevata una questione di costituzionalità, gli
stessi illustri magistrati in toga nera lunga come una tonaca,collo e
maniche merlettati,raccolti intorno a un lungo banco a forma di ferro
di cavallo, sovranamente decreterebbero che questa rapina legalizzata
è,almeno fino al 2016, “ congruente con la necessità di risparmi
consistenti e immediati”.
2- Le misure finanziarie di cui si discorre,non
rivestendo più natura tributaria né provvedi mentale,perché preordinate
a meri “risparmi di spesa”,privano i soggetti colpiti dalle garanzie e
dalle tutele predisposte,nello specifico ,dai plurimenzionati articoli
53 e 97 della Costituzione.
In concreto,e per conseguenza,acquista una ,per così dire,rinforzata
legittimazione postuma il citato d.p.r. 122/13,che,tra l’altro,ha
congelato, sempre ai livelli del 2009, la già risibile indennità
di vacanza contrattuale sino al 2017, prefigurando, in fatto, un
ulteriore rinvio dei rinnovi contrattuali e senza possibilità di
recupero delle mancate utilità economiche per i trienni 2010/12,
2013/15 – oramai andati in cavalleria – e, presumibilmente, del biennio
2016/17. Perché il meccanismo, dopo l’avallo dell’Alta corte, potrà
replicarsi ad libitum, bastando l’allegazione di straordinaria
necessità e urgenza riveniente da insopprimibili ragioni di
riequilibrio finanziario (lo vuole l’Europa!), e il gioco è fatto.
Se, per gli esimi magistrati della Consulta, può alterarsi, sino
a rompersi, il sinallagma qualità e quantità della
prestazione-sufficienza della retribuzione, il Governo, ad un tempo
legislatore e datore di lavoro, potrà anche determinarsi a non pagare
più i propri dipendenti, atteso che – dopo la semiclandestina
riscrittura dell’articolo 81 della Costituzione e, in parte qua, le
integrazioni apportate ai successivi articoli 97,117,119 – la nostra
Repubblica pare, ruvidamente, (ri)fondata sul pareggio di bilancio, non
più sul lavoro, che i padri costituenti, in apertura della Carta,
avevano elevato a strumento di progresso personale e sociale,
remunerato in proporzione alla sua quantità e qualità, in ogni caso a
misura tale da garantire il decoro della professione svolta e
un’esistenza libera e dignitosa, per sé e per la propria famiglia.
3- A soli due giorni di distanza dalla
statuizione dei supremi giudici,il MEF ha attivato le procedure di
annullamento di tutti gli aumenti corrisposti al personale
docente,educativo e ATA sotto forma di scatti di anzianità,già erogati
e ora soggetti a restituzione,ancorché autofinanziati con la
corrispondente potatura dei già magri fondi in origine destinati al
miglioramento dell’offerta formativa, e ovviamente non restituiti alle
scuole perché incamerati dall’erario.
La minaccia di uno sciopero dei sindacati di comparto – sembra che
ancora funzioni,almeno per i grossi numeri – ha risvegliato le forze
politiche dal loro disinteresse per la scuola.
Decisiva sarà stata la bruciante battuta – saremo mica su “Scherzi a
parte?” – pronunciata dall’astro nascente Renzi,proprietario della
golden share in una compagine governativa giudata dalle nuove leve
di,sedicenti,rivoluzionari,ma in perenne sofferenza,replicanti le
paludi da Prima Repubblica,in cui – è stato scritto – i tempi si
allungano,gli incontri si dilatano,gli argomenti scoloriscono,le
chiacchiere proliferano e dietro un trascurabile maquillage linguistico
la Terza Repubblica dei trenta-quarantenni sembra di colpo vecchia come
il cucco.
Sicché i docenti e,dopo una breve ma imbarazzante incertezza di Viale
Trastevere,il personale ATA – i cui stipendi sono ancor più da schifo –
non dovranno restituire,in rate mensili di centocinquanta euro,gli
importi percepiti per la maturazione degli scatti di anzianità nel 2012
e/o rivenienti dalla remunerazione delle c.d. posizioni
economiche,anche se al momento qui residua qualche dubbio.
Naturalmente,nell’immediato,si pone il problema della copertura
finanziaria per la compensazione dei mancati introiti all’erario,pari a
trecentosettanta milioni di euro. La soluzione sembra quella di
un’ulteriore riduzione del fondo delle istituzioni scolastiche per il
miglioramento dell’offerta formativa,pari a duecentocinquanta
milioni,mentre gli altri centoventi sarebbero detratti dai risparmi –
un salasso di otto miliardi imposto alla scuola – dell’epocale riforma
Gelmini-Tremonti. Ma il problema si riproporrà,aggravato,per gli
scatti di anzianità e per le posizioni economiche del 2013,già
posti all’ordine del giorno dai sindacati; e l’alternativa
sarà,giocoforza,quella di azzerare il Mof. Dopodiché potrà cantarsi il
de profundis dell’autonomia scolastica.
4- Dopo un inverecondo balletto tra i cinque
sindacati –quattro generalisti di comparto e uno autonomo –
rappresentativi della quinta area della dirigenza scolastica,il MIUR e
il MEF,l’esito che ne è scaturito è stato il non doversi dare corso ai
contratti integrativi regionali per le retribuzioni di posizione
variabile e di risultato(nonché delle reggenze),spettanti ai dirigenti
scolastici e relative all’a.s. 2012/2013,già terminato da quattro mesi.
Qui l’arrogante presa di posizione del MEF,con la sua cervellotica
procedura per il calcolo del fondo unico nazionale, va ben oltre lo
spirito e la lettera del decreto legge 78/10,convertito nella legge
122/10,che impone sì il blocco delle retribuzioni ai livelli del
2010,ma non la loro decurtazione. Tal che i dirigenti scolastici,ancora
una volta,pagherebbero la loro “specificità”,per essere l’unica
categoria che non solo non percepisce aumenti,ma addirittura subisce
una diminuzione monetaria della propria retribuzione,in termini medi di
circa duemila euro annui pro capite. E la subisce in contestualità ad
un ulteriore aggravio dei suoi carichi di lavoro.
Difatti,in seguito alla mancata intesa nella Conferenza
Stato-Regioni,dovrà procedersi al dimensionamento della rete
scolastica,anche per il 2014/2015,con i parametri di cui alle leggi 111
e 183 del 2011,che prescrivono la media di mille alunni-studenti
affinché ogni istituzione scolastica possa conservare la propria
autonomia e così avere un suo dirigente e un suo DSGA.
Per cui dopo la cancellazione di duemilacinquecento dirigenze
scolastiche se ne prospetta l’amputazione di altre ottocento.
Si dovrà dunque assicurare l’impossibile governo di megaistituzioni
frantumate – specie nel primo ciclo,lo snodo più delicato del sistema –
in più plessi o sedi e in più comuni,anche distanti tra di loro,senza
rimborsi delle reali spese di spostamento,senza l’esonero dei
collaboratori,con gli uffici di segreteria progressivamente impoveriti
negli organici e composti da soggetti non sempre qualificati,che siano
stati sottoposti o meno a riconversioni forzose e sbrigative, perché
soprannumerari nelle qualifiche di provenienza e/o docenti inidonei
all’insegnamento; e in più non pochi dirigenti dovranno accollarsi la
reggenza di scuole sottodimensionate e prive di un DSGA titolare.
Tre delle associazioni sindacali generaliste,le stesse che hanno levato
gli scudi per la giusta difesa delle retribuzioni dei docenti e del
personale ATA,rese rappresentative dell’Area quinta dall’autolesionismo
dei dirigenti scolastici,di alimentare chi cura,nella sostanza e
legittimamente,gli interessi del personale del comparto,si sono
ancora,e a tutt’oggi,limitate a chiedere al ministro Carrozza “un
autorevole e incisivo intervento sul MEF,per evitare un consistente
arretramento della retribuzione dei dirigenti scolastici,a fronte dei
crescenti carichi di lavoro e delle connesse responsabilità su di essi
gravanti”. In caso contrario “si vedranno costretti ad attivare le
necessarie iniziative di mobilitazione,a difesa di legittimi interessi
retributivi e professionali”.
La quarta associazione,in ordine di tempo,ha proclamato lo stato di
agitazione(sic!) e chiesto al MIUR l’esperimento delle procedure
conciliative su otto punti di rivendicazioni per il personale
docente,amministrativo,tecnico e ausiliario,riservando,in coda,
un’attenzione alla sua appendice dei “datori di lavoro”; perché siano
sbloccati i contratti integrativi regionali per la retribuzione di
posizione variabile e di quella offensiva mancia costituente la
retribuzione di risultato,”nel rispetto della quantificazione del fondo
nazionale definita dal MIUR( e contestata dal MEF) a dicembre del 2012
“: tredici mesi fa!
A stretto seguito,la quinta componente della Pentiade,già associazione
sindacale-professionale di soli dirigenti scolastici ed ora
comprendente le autodefinitesi alte professionalità, comunque e pur
sempre docenti e personale amministrativo,ha indirizzato due separate
missive al ministro dell’Istruzione (l’una) e al presidente del
Consiglio,nonché ai titolari dell’Economia e della Funzione Pubblica(
l’altra).
Al primo destinatario chiede “un incontro, nei tempi più brevi,per
entrare(ancora?) nel merito delle diverse questioni non più
differibili”,non mancando – come la recente vicenda dei docenti ha
dimostrato – le possibilità “di affrontare e risolvere le criticità
esistenti anche con gli ordinari strumenti della gestione
amministrativa,solo che sussista la volontà politica di farlo”. Nel
caso che l’invito rimanesse inascoltato,oltre a un sit in presso il
ministero,in corso di organizzazione,non si sente di escludere
“ulteriori e più incisive iniziative successive”
Agli altri auspicati interlocutori – sin qui silenti,se non ostili –
chiede di “portare il contributo delle rispettive Amministrazioni alla
gestione delle criticità rappresentate”.
Può dirsi il minimo sindacale, se non giusto per onor di
firma,evidentemente non potendo meritare di più una categoria
frantumata,incapace di avere una propria rappresentanza e adusa
ad affidarsi all’improbabile benevolenza altrui.
Lo scenario,dunque, appare plumbeo, e solo per esigenze di completezza
mette conto richiamare l’ordinanza del giudice del lavoro di Roma,del
27 novembre 2013,emessa su ricorso di associazioni sindacali
rappresentative di pubblici dipendenti contrattualizzati della
Presidenza del Consiglio,dei Ministeri e degli EE.LL.
Con la suddetta ordinanza è stata sollevata la questione di legittimità
costituzionale delle stesse disposizioni,tutte più volte
citate,del d.l. 78/10 e del d.p.r. 122/13,che ha prorogato sino al 31
dicembre 2014 il blocco delle retribuzioni di tutto il pubblico
impiego,già decorrente dal 2010,e quindi delle procedure
contrattuali,ferma restando la possibilità di negoziare la parte
normativa e senza possibilità di recupero per la parte economica.
I divisati profili di incostituzionalità ineriscono anzitutto agli
articoli 35,36 e 39 cost.
Osserva il giudice a quo che la sospensione della possibilità di
negoziare,anche solo in ordine ad incrementi retributivi,viene a
determinare,indirettamente,un’anomala interruzione dell’efficacia delle
disposizioni vigenti in materia(artt. 40,43 e 45,d.lgs. 165/01) e
quindi del valore dell’autonomia negoziale riservata alle parti
nell’ambito della contrattazione collettiva.
La predetta interruzione è da imputarsi all’esclusiva e affatto
peculiare posizione dello Stato-datore di lavoro. Peraltro, in un
regime normativo nel quale la retribuzione è determinata da accordi di
categoria,il rispetto del principio costituzionale della
proporzionalità tra il lavoro svolto e la sua remunerazione è affidato
proprio allo strumento del contratto collettivo.
Conseguentemente,l’inibizione prolungata della contrattazione in ordine
all’adeguamento dei trattamenti retributivi può sollevare il legittimo
dubbio di una conseguente violazione del principio di proporzionalità e
sufficienza della retribuzione. Né tale situazione risulta sanata dalla
parziale riespansione,solo normativa, della contrattazione per il
biennio 2013-2014,con espressa esclusione di ogni recupero delle
pregresse utilità economiche in esito al blocco ex d.l.
78/10, “con ciò evidenziando
il carattere definitivo della limitazione imposta a prescindere
dall’attuale situazione emergenziale posta a fondamento della
decretazione d’urgenza”.
E vi è altresì violazione dell’art. 3 cost. anche in relazione al
precedente art. 2, “per non manifesta infondatezza per violazione dei
principi di uguaglianza,ragionevolezza legislativa e di solidarietà
sociale”. Infatti,prosegue l’ordinana, “a fronte delle esigenze
contingenti che hanno sollecitato l’agire del legislatore d’urgenza…le
misure di risanamento sono state adottate agendo sulle retribuzioni dei
soli pubblici dipendenti…perché,ove l’esigenza inderogabile di
riduzione della spesa derivasse dalla richiamata eccezionalità della
situazione economica internazionale,ne discenderebbe la necessità di
accollare tale onere sulla collettività considerata nel suo insieme e
non già solo su una parte dei cittadini(i pubblici dipendenti)”.
Certamente,ed in conformità della giurisprudenza costituzionale in
materia,non si sarebbe posta la questione di legittimità qualora le
censurate misure di contenimento della spesa pubblica per realizzare
immediate esigenze di riequilibrio di bilancio fossero state
circoscritte nel tempo e senza dispiegare effetti ulteriori,oltreché
impeditivi di qualsivoglia possibilità di recupero,in relazione al
decorso triennio contrattuale 2010-2012 e al biennio 2013-2014. Ma
un’emergenzialità reiterata nell’arco di un quinquennio sancisce la
“definitiva ablazione”del diritto alla negoziazione, “venendo a
determinare i denunciati effetti permanenti del blocco dell’adeguamento
delle retribuzioni.
Quanto or ora argomentato si rinforza a contrario
dall’inconferente allegazione,ad opera della difesa erariale,di quanto
prescritto dall’articolo 4 del d.l. 78/10,laddove recita che “i rinnovi
contrattuali del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni
per il biennio 2008-2009 ed i miglioramenti economici del rimanente
personale in regime di diritto pubblico per il medesimo biennio non
possono,in ogni caso,determinare aumenti retributivi superiori al 3,2
per cento”. Perché in tal modo indirettamente si conferma come la
contrattazione collettiva in materia,seppure limitata,debba comunque
potersi esplicare entro un determinato ambito di manovra; “spazio
che,invece,la disposizione di cui al successivo comma 17 esclude
completamente,inibendo del tutto la negoziazione per gli anni 2010-2012
e limitandola alla sola parte normativa per gli anni 2013-2014”.
In conclusione,potrebbe dirsi che,qualora la Corte costituzionale
dovesse,per ipotesi,pronunciarsi domani,il rigetto dell’ordinanza del
giudice del lavoro di Roma sarebbe assicurato,perché
sarebbe,ragionevolmente,riproposto il medesimo criterio di
giudizio,tutto “politico”,connotante la sentenza 310/13: di
un’emergenza indefinita nei tempi a frustrare ogni diritto dei
dipendenti pubblici comuni mortali; fino a quando al legislatore non
piaccia di decretare il suo punto d’arresto.
Non potendosi invece avere una pronuncia,come di regola,prima di un
anno,i tempi della Corte coinciderebbero con quelli della politica.
Si vuole cioè affermare che ogni possibile schiarita sull’orizzonte
è,in definitiva,legata al miglioramento della congiuntura
economica,ancora incerto e lontano. Ma sarebbe comunque una speranza
vana se si dovesse restare inerti,senza comprendere che ciascuno dovrà
essere artefice del proprio destino,intanto iniziando a dismettere,come
non hanno disdegnato di fare categorie professionali non meno
titolate,senza particolari patemi d’animo e senza remore,il proprio
aplomb istituzionale
Francesco G. Nuzzaci, segretario Dirigentiscuola della Puglia.
( Il presente contributo è stato
scritto per la rivista Scuola & Amministrazione, numero 1 di
gennaio 2014,nel suo nuovo formato telematico. Lo riportiamo qui per
volontà dell’autore e con il permesso dell’editore)