Con il nuovo
meccanismo di distribuzione dei fondi a Reggio Calabria risorse venti
volte inferiori rispetto a Modena - Più che un gap, sembra una
voragine: i bambini tra o e due anni che usufruiscono di asili nido
comunali o finanziati da Comuni sono il 17,5% al centro Italia, il
17,3% al Nord-est, ma solo il 3,6% al Sud. E non è semplicisticamente
una questione di nonni, rileva l’Istat che ha appena pubblicato il report
sull’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio educativi per
la prima infanzia: la percentuale dei Comuni che garantiscono la
presenza del servizio è del 76,3% al Nord-est, con picchi virtuosi come
l’Emilia Romagna, dove l’84,5% dei Comuni ha un asilo nido e il 27,3%
dei bambini lo frequenta. All’estremo opposto, il Sud, lontanissimo,
con il 22,5% dei Comuni serviti da nidi e Regioni, come la Calabria,
dove solo 8 Comuni su 100 vantano un nido e 2 bambini su 100 lo
frequentano. Pure i costi sono su due direttrici diverse: pur
aumentando in tutta Italia dal 2014 al 2012, i Comuni del Centro
spendono 1382 euro all’anno per mantenere ogni bambino all’asilo nido,
mentre quelli del Nord-est ne tirano fuori 1704, quelli del Nord-ovest
827, e al Sud la spesa si attesta sui 203 euro per bambino, valore
quasi quattro volte inferiore alla media italiana. Cambia notevolmente
pure la quota pagata dalle famiglie, che può andare dai 540 euro dalla
Calabria ai 2300 della Valle d’Aosta.
Le risorse (che non ci sono)
«Il divario è tanto noto quanto inaccettabile- rileva l’ex
sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria, maestro di strada a
Napoli e dintorni –Va subito ripreso l’impegno per costruire asili nido
di qualità nel Mezzogiorno e diminuire il divario col Nord. Le regioni
del Sud devono scegliere questa priorità, e i Comuni pure. I servizi
per la prima infanzia vanno posti fuori dal patto di stabilità: servono
più risorse». Ma all’orizzonte non se ne vedono, anzi. E almeno per due
motivi. Perché il fondo per le politiche sociali che lo Stato
attribuisce alle Regioni, che ammonta a 317 milioni di euro, viene poi
diviso ai Comuni sulla base delle scelte politiche degli
amministratori, senza specificare le destinazioni d’uso dei soldi. E
poi perché anche l’applicazione dei fabbisogni standard, che dovrebbero
entrare in vigore l’anno prossimo, lascia il Mezzogiorno a bocca
asciutta. Sose, la società del ministero dell’Economia e della Banca
d’Italia che ha elaborato i conteggi per i 6702 Comuni delle Regioni a
statuto ordinario, ha pubblicato i coefficienti di ripartizione della
spesa complessiva dei Comuni per gli asili nido (che nell’ultimo anno
ammonta a 1,4 miliardi), simulando cosa succederebbe se si volessero
dividere i costi in maniera equa, tenendo conto di tutte le variabili.
I Comuni a «zero asili»
Ebbene, ci sono moltissimi Comuni del Sud, come Pozzuoli e Giugliano, a
cui viene destinato «zero», perché attualmente non esistono asili. E
Comuni, come Modena e Reggio Calabria, che pur avendo lo stesso numero
di abitanti (185 mila) , hanno una differenza di risorse di venti
volte, in favore del comune emiliano. Ci sono posti, come Lomagna in
provincia di Lecco, che con solo 4 mila abitanti riceverebbero una
fetta di risorse, e altri, come Cerignola in provincia di Foggia, 57
mila abitanti, dove non sarebbero destinato neanche un euro. Perché le
risorse, con questo metodo, verrebbero assegnate appunto sulla base dei
costi sostenuti da chi già eroga il servizio: e quindi chi già ha gli
asili, e spende anche tanto per mantenerli, continuerebbe a ricevere
una fetta di risorse. Chi invece non ce li ha, non avrà niente, e
presumibilmente farà fatica a mettersi in pari, al Sud come al Nord.
«Il problema è che sugli asili non sono mai stati stabiliti i livelli
essenziali di prestazioni – spiegano dal Sose – L’asilo nido è un
servizio a domanda individuale, non obbligatorio, e quindi non deve
essere garantito. E così il Sud negli anni ha speso male, poco sul
sociale e tanto sulla burocrazia. Se ci fosse l’obbligo di garantire
una quota fissa di copertura, i fabbisogni potrebbero sanare queste
storture».
350 milioni per garantire il 12% dei bambini
In realtà l’ipotesi era stata pure fatta: per garantire un asilo nido
al 12% dei bambini tra zero e due anni (l’attuale media italiana),
secondo la simulazione del Sose sui costi standard, ci sarebbero voluti
350 milioni. Ma il governo non ha voluto metterli: perché la revisione
della spesa pubblica attraverso i costi standard deve avvenire «a saldi
invariati», ovvero senza costi aggiuntivi. Dura la nota del Forum del
Terzo settore: «La scelta del Ministero dell’Economia di adottare il
criterio della ‘spesa storica’ e non quello del fabbisogno standard
ripropone tutte quelle criticità e inefficienze nella distribuzione
delle risorse e nell’attuazione di servizi, come abbiamo segnalato da
tempo, in particolare per le regioni del Mezzogiorno. Non è pensabile
compensare e superare il divario sociale e regionale, che continua ad
aumentare, senza pensare di prevedere investimenti economici e
stanziamento di risorse».
La legge per gli under 3
Una via d’uscita potrebbe essere una nuova legge: come quella pensata
dalla senatrice Francesca Puglisi, ferma dopo l’approvazione in
commissione al Senato, che ridisegna le regole per la scuola dei
bambini tra 0 e sei anni, e in particolare punta il dito sugli asili
nido, che dovrebbero garantire un posto a tre bambini su dieci prima
dei tre anni. «Considerando anche gli asili statali, oggi solo il 18%
dei bambini sotto i tre anni riesce ad avere un posto in un asili nido
pubblico: siamo ancora lontani dall’obiettivo del 33% fissato dal
Consiglio delle comunità europee- rileva Puglisi- Emilia-Romagna,
Toscana e Lombardia hanno raggiunto già gli obiettivi europei, e
infatti in queste regioni l’occupazione femminile ha raggiunto il 60%.
In Calabria, dove invece i servizi per l’infanzia sono scarsi e
malfunzionanti, le donne lavorano poco più che in Pakistan, il 30%».
Valentina Santarpia
Corriere.it