Tutto ciò va detto se si vuole intendere seriamente la faticosa formazione del pensiero di Gramsci, dagli anni adolescenziali a quelli torinesi ed a quelli del carcere, e la lenta acquisizione del suo marxismo come storicismo a contatto soprattutto con gli scritti di Benedetto Croce e con la sua posizione antipositivistica ed antidogmatica che lo conduce gradualmente a leggere il materialismo storico di Marx in termini metodologici,umanistici e antistalinisti, ed a recuperare e valorizzare Kant, Hegel, Machiavelli, Cuoco, Labriola, De Sanctis,ecc., più che Stalin, Lenin e tutto il pesante patrimonio culturale del bolscevismo rivoluzionario. In quest'ottica egli può affermare che il tradizionale atteggiamento passivo degli intellettuali riformisti in attesa di eventi cruciali dovuti al funzionamento del sistema capitalistico deve essere sostituito da una presa di coscienza attiva e da un intreccio dialettico dei fattori,di cui quello soggettivo sta in prima fila. Il suo marxismo matura così con lo studio sistematico, graduale e profondo della storia italiana e della filosofia moderna,e non nasce tutto armato come Minerva dalla testa di Marx e di Lenin, né tanto meno di Stalin, ma conosce i dolori,le fatiche e le ambiguità di una gestazione prolungata nel tempo e capace perciò di recuperare gli elementi più fecondi della civiltà borghese e del pensiero liberale. Per questa ragione quello che più conta alla fine è il Gramsci in carcere,il Gramsci filosofo della storia,della politica e della cultura, quel Gramsci che scrive "per l'eternità" e non più per la contingenza politica o per il partito e l'immediatezza della lotta proletaria.
Certo, è necessario ammettere onestamente che Gramsci non sfugge all'ambiguità della sua stessa originalità, cioè al fatto di per sé contraddittorio di lavorare su termini elaborati da altri autori (per esempio da Labriola, da Croce o da Gentile) e di adoperare un linguaggio del tutto funzionale a compiti completamente speculativi e con valenza non strumentale. In carcere si verifica questa difficoltà durante il lavoro di ricomposizione storiografica e filosofica che si annuncia con il progetto di una ricerca "per l'eternità" il 19 marzo 1927. Adesso il pensatore sardo rimette in questione il linguaggio tradizionale del marxismo, si dice assillato dal bisogno di fare qualcosa "per l'eternità", e perciò si dà un piano di studio e di lavoro che lo renda attivo pur nella segregazione carceraria imposta dal regime fascista con la sua detenzione. E non esita a prendere spunti positivi per questo lavoro soprattutto da un filosofo "revisionista" come Benedetto Croce che egli pone al centro delle proprie riflessioni, sia pure criticamente: "Ho già accennato alla grande importanza che il Croce assegna alla sua attività teorica di revisionista e come, per sua stessa ammissione esplicita, tutto il suo lavorìo di pensatore in questi ultimi venti anni sia stato guidato dal fine di completare la revisione fino a farla diventare liquidazione. Come revisionista egli ha contribuito a suscitare la corrente della storia economico-giuridica [...] oggi ha dato forma letteraria a quella storia che egli chiama etico-politica, di cui la Storia d'Europa dovrebbe essere e diventare il paradigma. In che consiste l'innovazione portata da Croce, ha essa quel significato che egli le attribuisce e specialmente ha quel valore liquidatore che egli pretende?" (A. Gramsci, "Lettera a Tania" del 2 maggio 1932, in "Lettere dal carcere", II, Editrice l'Unità 1988, p.110).
Al di là del revisionismo più o meno crociano, Gramsci elabora dunque le proprie idee all'interno dell'apparato concettuale di Croce che gli fornisce parecchi stimoli filosofici e molte sollecitazioni alla ricerca del nuovo ordine filosofico-linguistico-ideologico, a cominciare dall'idea centrale dell'egemonia: "Si può dire concretamente che il Croce, nell'attività storico-politica, fa battere l'accento unicamente su quel momento che in politica si chiama dell'egemonia, del consenso, della direzione culturale, per distinguerlo dal momento della forza, della costrizione, dell'intervento legislativo e statale o poliziesco. In verità non si capisce perché il Croce creda alla capacità di questa sua impostazione della teoria della storia di liquidare definitivamente ogni filosofia della praxis" (ibidem).
Gramsci sa benissimo come e perché Croce, a differenza di Gentile, abbia cercato, sin dalla pubblicazione di "Materialismo storico ed economia marxistica" del 1900, di "liquidare" una certa filosofia della praxis e abbia valorizzato del materialismo storico l'aspetto metodologico per comprendere più a fondo la realtà storica (la vera ed unica scienza è la storia,diceva Marx) e non abbia l'intenzione di procedere al rovesciamento violento della società borghese per instaurare il nuovo ordine proletario. Perciò egli rinuncia alla guerra di movimento e si attesta crocianamente sulla guerra di posizione che è quella per l'egemonìa, e nel 1932, al culmine di questa riflessione sulla filosofia di Croce, dice che in fondo il filosofo napoletano ha trasformato giustamente la filosofia della praxis in linguaggio storicistico, dandogli però una veste speculativa che va opportunamente reinterpretata con lo "storicismo realistico della filosofia della praxis". La verità è che Gramsci accetta di Croce la teoria e metodologia della storia e la coincidenza di storiografia e filosofia. I ventinove "Quaderni del carcere" regolari ed i quattro "speciali" (di traduzione) nell'edizione critica einaudiana curata dal grande studioso Valentino Gerratana costituiscono il prodotto più elaborato e maturo di una tale convergenza. Ad essi bisogna attingere per capire il Gramsci più sistematico che lavora per la verità e per l'eternità.
Nel percorso non sempre lineare dei "Quaderni" Gramsci ritrova se stesso, spesso in totale contrasto con le proprie convinzioni leniniste giovanili, ma in linea con le sue più autentiche intenzioni e aspirazioni maturate forse già prima di entrare in carcere e ovviamente rese più solide durante la detenzione carceraria. Anche nel documento che può considerarsi il suo testamento politico, quello contenuto nel "Rapporto" di Athos Lisa, nel quale, sfidando tutti i dogmi della Terza Internazionale, egli insiste sulla necessità di obiettivi politici intermedi e sull'Assemblea Costituente nella lotta comune contro il fascismo, si nota l'abbandono del "rovesciamento" rivoluzionario e della praxis di marca marxista-leninista. E Gramsci subisce cocenti tormenti per aver comunicato questa posizione ai suoi compagni di prigione, e va incontro al proprio definitivo isolamento all'interno dell'isolamento carcerario.
Non per nulla adesso è la riflessione intorno alla undicesima "Tesi su Feuerbach" ad occupare un posto decisivo nell'itinerario di Gramsci, che traduce e ritraduce nei suoi "Quaderni" complementari le "Tesi" marxiane e ne deduce che la praxis non può soppiantare la teoria e che l'attività pratica di trasformazione del mondo non può rinnegare lo strumento fondamentale della teoresi che rimane (e deve rimanere) al suo posto a combattere la sua battaglia per la continua comprensione ed interpretazione del mondo. Se mai, crocianamente, egli può affermare l'identità di storia e filosofia in una visione per la quale la filosofia non può essere semplice sovrastruttura destinata a scomparire nella trasformazione storica del mondo, ma espressione di storicità, di egemonia, strumento del consenso e della capacità di direzione della società.
Gramsci riattiva il concetto di praxis, ma con una diversa impostazione rispetto alle "Tesi su Feuerbach" di Marx e con un riferimento molto più puntuale a Croce: "Anche da questo punto di vista appare come il Croce abbia saputo mettere bene a profitto il suo studio della filosofia della praxis. Cosa è infatti la tesi crociana dell'identità di filosofia e di storia se non un modo, il modo crociano, di presentare lo stesso problema posto dalle glosse al Feuerbach e confermato dall'Engels nel suo opuscolo su Feuerbach? Per Engels la storia è pratica (l'esperimento, l'industria), per Croce la storia è ancora un concetto speculativo; cioè Croce ha rifatto a rovescio il cammino che dalla filosofia speculativa portava a una filosofia concreta e storica, la filosofia della praxis; il Croce ha ritradotto in linguaggio speculativo le acquisizioni progressive della filosofia della praxis e in quella ritraduzione è il meglio del suo pensiero" (A. Gramsci, "Quaderno 10", in "Quaderni del carcere" a cura di V.Gerratana, secondo vol., p.1271). Insomma,come l'originario materialismo storico di Marx è lo sviluppo dell'hegelismo, così la moderna filosofia della praxis dev'essere lo sviluppo dello storicismo crociano, dove la filosofia è il processo di costruzione della verità storiografica. E la definizione del marxismo come filosofia della praxis, a questo punto, appare necessariamente trasformata in quella di marxismo come teoria della storia e realizzazione della crociana concezione etico-politica.
Questa visione neo-crociana è molto distante dalla tradizionale interpretazione marxista e altrettanto lontana da gretto pragmatismo rivoluzionario del marxismo-leninismo. Quando Gramsci vuole ridefinire il marxismo in termini di praxis altro non fa che riprendere il linguaggio di Croce: " Né il monismo materialista né quello idealista, né Materia né Spirito evidentemente, ma materialismo storico, cioè attività dell'uomo(storia) in concreto,cioè applicata a una certa materia organizzata (forze materiali di produzione), alla natura trasformata dall'uomo. Filosofia dell'atto (praxis), ma non dell'atto puro, ma proprio dell'atto
Il linguaggio gramsciano è quello tipico di Croce, ma lo è anche il contenuto che definisce la praxis in termini di attività del soggetto e che attribuisce alla soggettività umana un insieme di qualità e di rapporti sintetizzati nell'ideologia. Questa diventa adesso lo strumento con il quale l'uomo prende coscienza delle sue condizioni esistenziali e della situazione storica. Fuori e al di là delle ideologie non vi è nulla, tranne il fatto che esse possono avvicinarsi alla verità con maggiore o minore misura. L'alternativa tra verità ed errore è dunque possibile e la loro distanza non è data dal successo o dall'insuccesso dell'azione rivoluzionaria, ma dalla presenza o dall'assenza di qualcosa di stabilmente, fortemente e gnoseologicamente costitutivo dell'idea. Perciò l'educazione intellettuale dell'uomo diventa fattore decisivo, anche ai fini di una formazione della coscienza politica non immediata, né facilmente influenzabile ed impressionabile. In questo senso la praxis è individuata nell'agire "ideologico" del soggetto, che a sua volta è un "blocco storico", cioè unità organica di natura e spirito, sintesi di opposti e distinti, intreccio di volontà, sentimento e intelligenza, blocco di "elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l'individuo è in rapporto attivo" (A. Gramsci, "Quaderno 10", in "Quaderni del carcere", cit.,secondo vol.,p.1338).
L'attuale ripresa del dibattito sul pensiero e la vita di Gramsci favorisce la permanenza delle "Lettere" e dei "Quaderni" nelle biblioteche in un momento in cui sembra perdersi ogni capacità e volontà di lettura dei classici, che sono indiscutibilmente delle opere non effimere, al di sopra di ogni rapporto con la storia assai marginale della politica. E le "Lettere" ed i "Quaderni" contrassegnano un capitolo importante della storia della filosofia e della cultura in Italia e in Europa. Bisogna essere grati in fondo a quelli come Orsini che ci permettono di far valere la classicità delle opere gramsciane, nonostante gli attacchi irrazionali e astratti. La classicità di Gramsci impone sempre una seria reinterpretazione dei suoi testi, e ciò ne favorisce la rilettura e la circolazione con nuovi significati e rinnovate prospettive culturali e al di là delle stesse miserevoli forzature dell'interpretazione marxista-leninista. Per quanto mi riguarda ho già avuto modo nella metà degli anni Settanta del Novecento di superare questa interpretazione con grande scandalo dei vecchi militanti di partito e dei nuovi (v. S. Ragonesi, in AA.VV., "Egemonia Stato Partito in Gramsci", Editori Riunitii, Roma 1977, pp.206-211).
Certo è che lo storicismo gramsciano, da qualche studioso troppo aristocratico considerato come un residuo di provincialismo filosofico, riappare oggi arricchito di nuove implicazioni e sfumature perché ripulito dei tanti elementi di strumentalismo politicistico. Una interpretazione più adeguata ora non può non passare dalla critica a Marx là dove questi sembra voler distruggere il processo della storicità nella credenza della illusorietà delle sovrastrutture. In questo senso allora lo storicismo gramsciano è revisionista e si presenta fornito della strumentazione necessaria a criticare la filosofia della praxis ed a comprendere la totalità del blocco storico, che è un riflesso dialettico di quello individuale che vede la compresenza dialettica di strutture e sovrastrutture, di pensiero ed azione, di filosofia e storiografia, di etica e politica, ecc. La filosofia della praxis si trasforma in storicismo critico e permette il recupero del Marx migliore, quello dei "Manoscritti economico-filosofici", della "Ideologia tedesca" e dello stesso "Capitale", dove l'economico non assume più il ruolo tradizionale di protagonista esclusivo, ma entra in relazione dialettica con tutti gli altri fattori ideologici, e questi non recitano semplicemente la parte dell'effimero marginale collocato in condizioni di estrema miseria non suscettibile di vera azione e considerazione storica,e la lotta di classe non occupa più tutto il campo della prassi umana e storica.
Gramsci ritrova dunque il "suo" Marx e soprattutto il "suo" Croce, con il quale può affermare il carattere metodologico del materialismo storico e la relatività di tutte le ideologie, e al tempo stesso la loro fondamentale importanza in quanto forme connaturate all'umano, e può approdare con tutto il blocco di strutture e sovrastrutture al suo storicismo che è una visione globale delle cose e non già una loro semplice e immediata percezione o una loro rappresentazione unilaterale e settaria, fatta e concepita per l'azione rivoluzionaria. E qui si chiarisce che l'omaggio finale a Lenin non deve fuorviare. Adesso tutto si gioca in casa, cioè nell'analisi della tradizione storica italiana da Dante a Gentile e nel contrasto dialettico di Umanesimo-Rinascimento-Riforma e nel confronto preminente con il filosofo italiano più in vista negli anni Trenta,che è Benedetto Croce, e con il suo linguaggio, dal quale Gramsci ricava implicitamente e talvolta esplicitamente la visione non economicistica e non pragmatica del materialismo storico, ovvero l'interpretazione né statica né unilaterale del rapporto tra struttura economica e sovrastrutture ideologiche. E queste non sono puri riflessi dei rapporti materiali di produzione, il "Dio nascosto" che produce e regola ogni processo sociale, intellettuale e politico, bensì fattori indispensabili e costitutivi della storicità e della stessa soggettività umana. Il comunismo è altra cosa: è un luogo lontano che non può essere la Russia sovietica di Lenin e di Stalin. La cosa più concreta e realistica è invece la scoperta dell'ideologia come luogo della consapevolezza storica delle contraddizioni immanenti all'uomo ed alla società e come forma della cultura capace di egemonia intellettuale e politica e di civilizzazione.
prof. Salvatore Ragonesi
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