Nel
settantunesimo anniversario della
Liberazione il passaggio dalla cronaca alla storia e dalla
memoria soggettiva e monumentale alla severa ricostruzione.
Il flusso delle stagioni ideologiche, culturali e politiche non è
stato
vano. Il tempo è una categoria dello spirito che chiede distanza di
ripensamenti e abbandono dei caldi ideologismi Ho dovuto rompere
con gli amici più cari, quelli che "venivano" dalla Resistenza, per
affermare il sacrosanto dovere della libera ricerca della verità
storica contro ogni mistificazione per ragioni le più svariate e
non sempre miserevoli e volgari. Perciò ho rifiutato per quanto
mi è stato possibile la falsa narrazione dello storico valdostano
Federico Chabod di un Sud tagliato fuori dalla lotta di
liberazione nazionale e sottoposto ai peggiori condizionamenti sociali
e culturali, perché su di esso non soffiava prepotente da nessuna
fessura "il vento del Nord", che rappresentava il progresso
intellettuale e morale, la modernità democratica e costituzionale
ed il più autentico antifascismo, quello che si sarebbe invece
fermato ai confini meridionali della Toscana. Nel Regno del Sud
la Resistenza taceva poiché sarebbe avvenuta troppo
presto l'invasione anglo-americana nella notte del
9-10 luglio 1943 e non vi potevano germogliare le condizioni ideali e
materiali di una opposizione armata e disarmata contro i
nazifascisti: "Questo è il regno del Sud. Qui non troviamo, non
possiamo trovare la Resistenza. Si costituiscono, è vero, dei Comitati
di liberazione nazionale, ma essi sono ben diversi da quelli delle
altre regioni; qui i comitati si formano quando ormai non c'è più
nessuna lotta da condurre. Quelli del Nord invece combattono per due
anni, molti dei loro membri rischiano continuamente la vita, e
parecchi infatti la perdono; le popolazioni sanno che fra loro c'è un
gruppo di uomini cui spetta il durissimo compito di guidare la lotta.
In altre parole, ciò significa che sia dal punto di vista
politico, sia da quello militare la popolazione del Mezzogiorno non può
conoscere il fenomeno partigiano(le grandi giornate di Napoli sono
un'eccezione che non muta la situazione generale). La lotta fra i
partiti si svolge in modo, direi, pressoché normale, in condizioni
relativamente favorevoli... Ma è lotta di partiti, non guerra di
resistenza" ( Federico Chabod, L'Italia
contemporanea, Einaudi, Torino
1961, p.120).
Chabod è grandissimo storico dell'età moderna, e nessuno gli
potrà togliere i meriti altissimi nella ricerca storica, ma sulla
Resistenza dimostra un mostruoso settarismo al quale sfuggono diversi
elementi di giudizio ed in primo luogo il fatto che il Sud non poteva
stare a guardare per evidenti ed inoppugnabili ragioni. Aveva visto
bene, il Croce che riteneva la contemporaneità una funzione da
trattare con molta prudenza e possibilmente con una certa distanza
logica e psicologica per evitare l'approccio meramente
cronachistico e monumentale. La storia possiede infatti una maggiore
credibilità rispetto alla cronaca, per la completezza
quantitativa delle informazioni ben consolidate e la migliore qualità
dell'interpretazione e della ricostruzione degli avvenimenti, che
devono essere fortemente e chiaramente documentati da una
intellezione depositata in attestazioni certe e verificabili. Non
deve scandalizzare perciò se da un punto di vista della
metodologia e della completezza narratologica l'opera attualmente
meglio riuscita sulla Resistenza, nonostante la sua caratterizzazione
antologica, sia da considerare quella del giornalista Aldo Cazzullo
Possa il mio sangue servire. Uomini e
donne della Resistenza, Rizzoli
2015, nella quale si attua con chiara intelligenza il superamento
dell'approccio ideologicamente settario per fare assumere alla
narrazione una prospettiva concretamente imparziale e
concettualmente più aperta e accettabile nel senso crociano, anche se
rimane non risolto il problema della partecipazione meridionale alla
guerra di liberazione pur nella nuova visione decisamente unitaria e
nazionale. Né si può ignorare, da un punto di vista
metodologico, il solidissimo saggio di Santo Peli La Resistenza
in Italia. Storia e critica, Einaudi 2004, per la seria proposta
di
ricostruzione complessiva dei fatti resistenziali e di una
storiografia problematica e desiderosa di ulteriori avanzamenti
cognitivi, senza abusi ideologici e falsificazioni monumentali e senza
distrazioni e distorsioni partitiche e suggestioni
regionalistiche.
La storia non è una disciplina nella quale si possa recitare su
copione la medesima lezione monumentale e ripetitiva Vi sono
aspetti molto problematici che devono essere affrontati con la
necessaria intelligenza critica e vi sono eventi nuovi prima non
considerati né adeguatamente studiati. Più volte ho rivelato la
presenza della lotta di liberazione in Sicilia, in coincidenza dello
sbarco alleato nell'Isola, e delle prime stragi nazifasciste nei paesi
dell'Etna, e altrettante volte mi è capitato di esaltare
l'indimenticato Giorgio Bocca della Storia
dell'Italia partigiana per i
primi timidi accenni di grande significato politico volti a
delineare la Resistenza nelle città del Sud, da Potenza a Matera
e da Napoli a Cajazzo nel casertano. L'insurrezione di Napoli non è
stata l'unica nel Meridione, giacché altre ve ne furono in centri
minori, come a Matera già il 21 settembre 1943 e in vari paesi
dell'Irpinia, della Terra di Lavoro, del Molise e dell'Abruzzo. Giorgio
Candeloro lo riferiva con onestà: "In alcuni casi gli
insorti, pur con perdite non lievi, riuscirono a cacciare i tedeschi
prima dell'arrivo degli alleati; in altri le rivolte fallirono e le
repressioni furono durissime , come avvenne a Lanciano tra il 4 e il 6
ottobre" (Giorgio Candeloro, Storia
dell'Italia moderna. La
Resistenza, Feltrinelli, Milano 2002, p.231). E tante volte
anch'io , più
modestamente, ho parlato di militari meridionali "sbandati" dopo
l'8 settembre che, non potendo ritornare nelle loro case lontane e non
volendo aderire alla Repubblica Sociale di Salò, si diedero alla
macchia e costruirono le prime postazioni resistenziali sui monti a
ridosso delle grandi e piccole città del Centro-Nord, da Genova a
Torino, da Milano a Udine, da Montepulciano a Pontremoli sull'Appennino
Tosco-Ligure-Emiliano. ecc.
Questo fenomeno di iniziale resistenza spontanea affidata alle
armi dei militari "sbandati", e soprattutto di quelli meridionali, non
è
stato adeguatamente analizzato e valutato, ma esso merita una
particolare considerazione storiografica, come la meritano del resto
Cefalonia ed i militari italiani massacrati a causa della loro
avversione al nazifascismo, quelli dissidenti internati nei campi di
concentramento in Germania e tutti quei religiosi che hanno accolto con
grave rischio nelle loro parrocchie e nei loro conventi
ebrei, antifascisti e partigiani. L'episodio assai singolare dei monaci
benedettini dell'abbazia di Farneta presso Lucca, deportati e racchiusi
dai nazifascisti nel Castello "Malaspina" di Massa e poi fucilati
il 10 settembre 1944 in luoghi periferici di questa città e
distribuiti come tanti sacchi di patate lungo il percorso e
raccolti da mani pietose, collocati nelle Fosse del Frigido è
segnalato oggi da un'altissima colonna commemorativ che non può
essere trascurata o minimizzata e che sollecita una diversa
visione e ricostruzione storiografica ben lontana dalla pur decorosa
Storia della Resistenza italiana
di Roberto Battaglia. Non è un
caso se il vescovo di Massa-Carrara (Apuania) sarà costretto subito
dopo
la liberazione a dare le dimissioni per aver tradito la fiducia
del clero locale e dei religiosi delle due città gemelle e gli ideali
resistenziali resi urgenti e pregnanti nei mesi precedenti, quando
nella zona infuriavano le stragi nazifasciste di Vinca, San Terenzo,
Stazzema, Castelpoggio, ecc., come cerco di raccontare in un mio saggio
pubblicato a cura del Comune di Carrara.nel 2003 e titolato
Cristoforo Arduino Terzi. Un vescovo
apuano tra fascismo, guerra civile
e dopoguerra.
Così è stato per il Sud e la sua indiscutibile
partecipazione alla guerra di liberazione nazionale. E non si dica
nemmeno che questa partecipazione è stata tardiva, giacché la
risposta diventa crudele per tutti , e ancora di più per coloro che
finora hanno ritenuto di essere i primi della classe nella cospirazione
antifascista. E oggi possiamo apprezzare l'onestà del giudizio
storico-politico di Giorgio Amendola: "In realtà i partiti antifascisti
sono nati o si sono organizzati tardi. Ecco il mio atto di accusa
Perché i partiti si sono organizzati soltanto nella seconda metà del
1942 ? Per la ragione che fino alla prima metà del '42 si temeva che
Hitler vincesse la guerra...Le energie si sono sviluppate solo quando è
apparso chiaro che la svolta della guerra significava la sconfitta di
Hitler... Anche noi [comunisti] siamo arrivati tardi all'appuntamento.
Un
passo più avanti degli altri, ma anche noi tardi" (Giorgio
Amendola, Intervista sull'antifascismo,
Laterza 2008, p. 147). La verità è
che pure la Resistenza italiana ha avuto per tutti un inizio
ritardato man mano che si verificavano determinate situazioni o
che si veniva ridefinendo la linea del fuoco con la risalita
degli Alleati sul territorio italico e la conseguente retrocessione
psicologica e territoriale dei nazifascisti. Ma, insomma,
l'antifascismo
non era di casa dovunque .
Le prime azioni di guerra partigiana nell'Italia del Centro-Nord
sono state compiute da giovani militari meridionali "sbandati" dopo l'8
settembre 1943 e nascosti tra i monti ed i boschi dell'Appennino e
delle Alpi. Antonino Siligato, Dante Castellucci e Alfio Anastasi
sono tre protagonisti della guerra di liberazione dei quali ho
potuto conoscere e studiare più da vicino la vicenda biografica .Essi
erano dei giovani militari "sbandati".dopo l'8 settembre Erano
meridionali Anastasi era nato ad Acireale in provincia di Catania
il 2 febbraio 1914 e dopo l'8 settembre salì in montagna,
sull'Appennino piacentino, in direzione di Cicogni nel Comune di
Pecorara sul Monte Mosso tra le province di Genova, Alessandria,
Piacenza
e Parma, e divenne un consapevole, attivo ed eroico partigiano del
Corpo Volontari della Libertà. Ed in tale posizione, con i suoi
compagni, si oppose al nazifascismo ed ai reparti armati della
famigerata divisione Turkestan composta da fanatici nazisti e
fascisti, tutti in uniforme di combattimento, ben armati e sostenuti da
pesanti mezzi corazzati.
Il giovane Alfio Anastasi organizzò la lotta armata sul Monte
Mosso e combattè valorosamente fino alla morte che lo colse il 18
dicembre 1944 a Cicogni durante una sua permanenza abituale
presso la famiglia Pozzi, a seguito di una infame delazione e di
feroce rastrellamento nemico con accerchiamento della cascina in
cui si trovava. Il partigiano acese cadde, ferito mortalmente sotto i
colpi del nemico e in via Fontanella n. 5 ora spicca la lapide
che lo riguarda sorta per volontà resistenziale e profondo dolore degli
abitanti del villaggio. La sua biografia è perciò importante se
esplorata nella sua completezza e nei rapporti con la generalità degli
avvenimenti che lo toccano da vicino, e che non sono, e non
possono essere, di natura privata e psicologica, poiché rientrano in
pieno nella dimensione della storicità dal momento che forniscono
risposte ai diversi quesiti posti dalla storiografia e riproposti
dalla narrazione storica a dimostrazione dell'assunto più volte
accennato circa la partecipazione meridionale alla lotta partigiana in
posizione non defilata ma preminente ed evidente.
L'ANPI piacentina ha provveduto giustamente ad onorare il partigiano
acese ed i suoi compagni di lotta ed a collocare inoltre il suo
nome nel Museo Monumentale dei Martiri della Resistenza
Piacentina, commemorandone solennemente la figura e l'eroismo in
varie occasioni e celebrandone la memoria come non si è fatto forse nel
suo paese natale. E questo dato è indicativo della cura nordica e
dell'incuria meridionale, che si traduce poi nella falsa
interpretazione storiografica di Chabod e nella comune convinzione di
un Sud estraneo alla lotta di liberazione, nonostante la massiccia
presenza di targhe e lapidi commemorative disseminate lungo i percorsi
settentrionali della Resistenza armata e dedicate ai partigiani
meridionali caduti in battaglia. Il legame che allora si teorizzò tra
popolazione e partigiani in armi fece pendere la bilancia dalla parte
del Nord ed escluse ingiustamente il Sud dalla partecipazione alla
guerra di liberazione. Ma la storia alla lunga fa giustizia e
rimette in equilibrio la realtà delle vicende umane, pure
nell'insufficienza degli elementi evocativi e delle istanze
celebrative. La verità si afferma anche quando gli uomini non sanno
curare il proprio patrimonio morale, culturale e ideale.
Io non smetterò mai di apprezzare immensamente coloro che
hanno voluto riportare alla luce la verità delle cose e degli
uomini e che si sono legati onestamente a quelle vicende
lontane rendendole vicine, appassionanti e significative, , e
ancora capaci di suscitare emozioni e sprigionare revisioni e
riconsiderazioni del processo storico che portò alla liberazione
nazionale. I miei ricordi giovanili mi inducono a risentire
ancora mentalmente la voce solenne e commossa di un
cugino di Alfio Anastasi, Antonino (chiamato "Nino") Anastasi, un
dignitoso e rigoroso impiegato nel Comune di Acireale che mi raccontava
in termini piuttosto mitologici l'ultima battaglia e la morte orribile
dell'Eroe, di cui non seppi altro e probabilmente non si seppe altro
nel
paese natale. Perciò il ringraziamento agli Organizzatori Piacentini
delle commemorazioni e delle rivelazioni sul Partigiano acese deve
essere davvero grande e sincero per le ragioni che ho tentato di
dire e soprattutto per il fatto assai rilevante storiograficamente di
avere svelato un Sud generoso donatore di sangue alla Resistenza
armata, e attivamente partecipe di quella disarmata e della lotta
di liberazione dell'Italia unita.
prof. Salvatore Ragonesi