Nomi professionali femminili. Rispondiamo ai tanti lettori (Maria Santa Fabrici, Filippo Costa, Enrico Zorzi, Annalisa Margheri, Biagio Medici...) che hanno espresso la loro incertezza nell'uso dei nomi professionali femminili.
La questione è stata estesamente trattata e ne ha dato conto anche Luca Serianni in una risposta pubblicata su La Crusca per voi (n° 13, p. 10), di cui riportiamo alcune parti.
«Il tema del femminile professionale (del quale s'è già parlato: cfr. La Crusca risponde, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 185-6), anche per la sua risonanza al di fuori della scuola o dell'accademia, si presta bene per riflettere sul problema della norma. Quando si parla di "norma" in linguistica, si parte da un parallelo, più o meno esplicito, con la norma per eccellenza, quella giuridica: alla sanzione giuridica corrisponde una sanzione sociale per gli usi linguistici giudicati, in un certo contesto storico-culturale, come aberranti; alle fonti del diritto corrispondono "fonti di lingua" a cui rivolgersi per ottenere lumi: le grammatiche, i vocabolari, gl'insegnanti. Come ogni parallelo, anche questo non può essere spinto oltre un certo segno: il diritto abbraccia l'insieme delle fattispecie giuridicamente rilevanti, in un sistema coerente che registra solo lentamente e prudentemente le modificazioni del comune sentire che avvengono nella società; la grammatica è invece molto più condizionata dall'uso reale... una norma grammaticale perde ogni significato se la comunità dei parlanti cessa di considerarla vincolante o almeno propria dell'uso più prestigioso.
Da questa premessa discende una conseguenza: è inevitabile che un processo linguistico in fieri, come il riassestamento maschile-femminile nei nomi professionali, sia presentato in modo diverso dalle varie "fonti di lingua", che riflettono l'obiettiva oscillazione dell'uso reale. Per il prof. Malesci, che richiama un noto opuscolo ufficiale del 1887 (le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, compilate da Alma Sabatini) il futuro è delle forme femminili: la ministra, l'avvocata, la soldata. Può darsi che egli abbia ragione. A me sembra però che, al di là dell'uso di alcuni giornali (non di tutti!), più sensibili al "politicamente corretto", nella lingua comune forme del genere non siano ancora acclimatate e, anzi, potrebbero essere oggetto d'ironia. Sul loro successo incide negativamente anche il fatto che molte donne avvertano come limitativa la femminilizzazione coatta del nome professionale, riconoscendosi piuttosto in una funzione o una condizione in quanto tale, a prescindere dal sesso di chi la esercita. giornali hanno fatto gran parlare, a suo tempo, dell'uso di Irene Pivetti che si riferì a se stessa come «presidente della Camera», «cittadino» e «cattolico».»
La questione è stata estesamente trattata e ne ha dato conto anche Luca Serianni in una risposta pubblicata su La Crusca per voi (n° 13, p. 10), di cui riportiamo alcune parti.
«Il tema del femminile professionale (del quale s'è già parlato: cfr. La Crusca risponde, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 185-6), anche per la sua risonanza al di fuori della scuola o dell'accademia, si presta bene per riflettere sul problema della norma. Quando si parla di "norma" in linguistica, si parte da un parallelo, più o meno esplicito, con la norma per eccellenza, quella giuridica: alla sanzione giuridica corrisponde una sanzione sociale per gli usi linguistici giudicati, in un certo contesto storico-culturale, come aberranti; alle fonti del diritto corrispondono "fonti di lingua" a cui rivolgersi per ottenere lumi: le grammatiche, i vocabolari, gl'insegnanti. Come ogni parallelo, anche questo non può essere spinto oltre un certo segno: il diritto abbraccia l'insieme delle fattispecie giuridicamente rilevanti, in un sistema coerente che registra solo lentamente e prudentemente le modificazioni del comune sentire che avvengono nella società; la grammatica è invece molto più condizionata dall'uso reale... una norma grammaticale perde ogni significato se la comunità dei parlanti cessa di considerarla vincolante o almeno propria dell'uso più prestigioso.
Da questa premessa discende una conseguenza: è inevitabile che un processo linguistico in fieri, come il riassestamento maschile-femminile nei nomi professionali, sia presentato in modo diverso dalle varie "fonti di lingua", che riflettono l'obiettiva oscillazione dell'uso reale. Per il prof. Malesci, che richiama un noto opuscolo ufficiale del 1887 (le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, compilate da Alma Sabatini) il futuro è delle forme femminili: la ministra, l'avvocata, la soldata. Può darsi che egli abbia ragione. A me sembra però che, al di là dell'uso di alcuni giornali (non di tutti!), più sensibili al "politicamente corretto", nella lingua comune forme del genere non siano ancora acclimatate e, anzi, potrebbero essere oggetto d'ironia. Sul loro successo incide negativamente anche il fatto che molte donne avvertano come limitativa la femminilizzazione coatta del nome professionale, riconoscendosi piuttosto in una funzione o una condizione in quanto tale, a prescindere dal sesso di chi la esercita. giornali hanno fatto gran parlare, a suo tempo, dell'uso di Irene Pivetti che si riferì a se stessa come «presidente della Camera», «cittadino» e «cattolico».»