Lévi-Strauss ha strappato il velo del Primitivo e dell’Indistinto dai popoli senza scrittura, e là ci ha mostrato che nel pensiero selvaggio gli strati sovrapposti a strati celano l’adorabile segreto dello stesso universo macromicrocosmico, dello stesso principio del «come in Alto così in Basso» dell’ermetismo tradizionale. C’è da dubitare fortemente che la dottrina indologica e teosofica delle reincarnazioni possa, da una concezione autentica della scienza, quando si tocca alla res cogitans come attributo della Divinità, restare fuori. L’opera di Claude Lévi-Strauss e quella di Charles Darwin non sono gabbie da scimmie, ma finestre spalancate in faccia alle costellazioni, da cui si contemplano la galassia-uomo insieme alle infinite altre, coi loro bagliori sanguinosi e i loro collassi gravitazionali incompresi.
Cento anni più uno di transito in corpo carnale nel mondo Terra sono una quantità che sgomenta. Soltanto una eccezionale energia mentale consente di attraversare in perfetta lucidità una tale apertura d’arco. Avrà conosciuto, il duro Claude, le crudeli umiliazioni, i melmosi inferni della moderna Depressione? La sua visione del mondo è nitidamente nichilistica; la bussola della sua ricerca antropologica è nel segno del tragico svanire di tutto in significati che nascondono, immutabile, il germe dell’insignificante. Mi domando se abbia avuto, fino all’ultimo, la forza di sopportare, domani sopra domani, il peso in sé del sillabario del Tempo come contenitore d’inutilità e di non senso. Amara sempre, la nostra povera vita ha bisogno di Buchi Bianchi luminosi da contrapporre alla tristezza meta-tropicale di quelli neri delle galassie.
Lévi-Strauss a questo è approdato: lo rivela un meraviglioso pensiero con cui termina e culmina la sua esplorazione umanistica di Guardare, ascoltare, leggere, pubblicato nel 1993, all’età di ottantacinque anni: «Alla scala dei millenni, le passioni umane si confondono. Il tempo nulla aggiunge o toglie agli amori e agli odi provati dagli uomini, ai loro accanimenti, alle loro lotte, alle loro speranze: sono gli stessi sempre. Sopprimendo a caso qualche secolo di storia, non si perde nulla di significativo della nostra conoscenza della natura umana. La sola perdita irreparabile sarebbe quella delle opere d’arte che quei secoli avrebbero visto nascere. Perché gli uomini non si differenziano, fino a non esistere neppure, che grazie alle loro opere. Come la statua di legno che partorì un albero, le opere d’arte soltanto ci danno la certezza che nel corso delle epoche qualcosa, tra gli uomini, è realmente accaduto».
Un uomo così riassume una civiltà. Conobbe, nella Parigi dei suoi tempi, tutto quanto ci fosse di degno d’essere incontrato e pensato; sterminata come i suoi viaggi era la sua memoria di cose, libri, persone. Nella nostra debolezza di esseri umani che invecchiano avendo pensato insieme drammaticamente il Transitorio e l’Eterno, il Sublime e il Terribile, è di grande conforto vedere in Claude Lévi-Strauss, immagine solare dell’Ebreo ramingo e ritornante, un exemplar vitae humanae che finalmente testimonia ben più della grandezza che della miseria dell’uomo.