In un piccolo borgo, poco distante dalla paludosa Mantova, nasce il 15 del mese di ottobre Publius Vergilius Maro, figlio di un agiato proprietario terriero. Il fiume Mincio scorre dolcemente fra i salici proprio vicino a casa e nessuno immagina che quel pargoletto diventerà il più grande poeta latino.
Andes si chiama il luogo di nascita ed esiste ancora oggi; anche se molto è cambiato ancora vi regna un’atmosfera elegiaca, frutto della natura che si manifesta dolcemente con i campi ben tenuti e ritmi di vita più lenti che consentono di soffermarsi a meditare sulla grandezza del creato e sulla caducità degli uomini.
A onor del vero c’è più di un sospetto che questo piccolo agglomerato di case non sia proprio il luogo natale del poeta, ed è proprio un passo delle Bucoliche, la sua opera prima, che fa sorgere dubbi; infatti, nella nona ecloga il poeta localizza la proprietà di Menalca, verosimilmente la sua, con questi versi: qua se subducere colles/incipiunt mollique iugum demittere clivo (di dove i colli / cominciano a inclinarsi e il giogo a digradare in dolce clivo.).
In effetti, nell’Andes che si trova vicino a Mantova, i colli non esistono, né ci sono mai stati: si può propendere pertanto per una località sempre prossima al fiume Mincio, ma sita sui colli morenici. Non mi sembra tuttavia che l’esatta identificazione del luogo natale sia essenziale per comprendere Virgilio, perché artisti della sua qualità esulano da una territorialità, da cui eventualmente traggono solo ispirazione, ma senza necessariamente presentare le caratterizzazioni tipiche di certe zone, come inflessioni e modi di dire, che in un eccelso non hanno riscontro.
Resta comunque un elemento indubbio: Vergilius non è un cittadino, ma un campagnolo; è abituato a vivere più fuori dalle mura che dentro le mura, il suo ritmo di vita nell’infanzia è quello dettato dalle stagioni, i suoi percorsi sono fra campi di grano e le sue soste sono in riva al fiume, fra canneti ondeggianti e i mille rumori degli insetti e degli animali che vi abitano.
Sono dell’idea che, pur senza l’influenza di Teocrito, avrebbe in ogni caso scritto dell’ambiente che lo circondava, di quella serenità del tutto naturale che da adulto affermato costituirà un rimpianto, un ricordo mai dimenticato.
Ma ritorniamo a quel neonato che si affaccia su un mondo e in uno stato che ben presto vedranno anni di grande turbolenza, di vere e proprie guerre civili.
Si sa molto poco della sua prima infanzia e anzi le scarne notizie sembrano solo frutto di fantasie di letterati vissuti molti anni dopo la scomparsa del poeta.
Esiste tuttavia una data certa ed è il 58 a.C., quando l’adolescente Vergilius lascia la casa natia per andare a Cremona per studiare grammatica. Nel 55 a.C., poi, indossa la toga virilis, di colore bianco o avorio, simbolo del passaggio all’età adulta, e nella circostanza si reca a Milano, all’epoca la città più importante della Gallia Cisalpina, per approfondire i suoi studi.
Non passa un anno e muore Catullo, il più importante dei poetae novi, che, come noto, introdussero nella poesia romana metodi e gusti di quella alessandrina. Il loro modo di poetare, così innovativo, influenzò radicalmente il giovane Vergilius che, nel 53 a.C., è a Roma per seguire le lezioni di retorica del maestro Elpidio, corsi in cui non eccelle e che lo portano anzi alla convinzione di non essere adatto alla vita forense o a quella politica. Infatti, ed è una caratteristica che sempre gli resterà, non ama parlare a lungo, né declamare: è, insomma, un uomo che oggi si potrebbero definire “di poche parole”.
Nel frattempo il difficile equilibrio della repubblica subisce ulteriori scossoni, dimostrando la fragilità di un progetto che assegna a più uomini il governo dello stato. Già nel 53 a.C. Crasso è sconfitto e ucciso dai Parti, l’anno dopo c’è l’assassinio di Clodio, agitatore della plebe, e infine, trascorsi altri tre anni di incertezze, in un’atmosfera di sospetti, scoppia la guerra civile fra Cesare e Pompeo. Si sa come andò a finire: Cesare, occupata Roma, insegue Pompeo, lo vince a Farsalo e lo fa uccidere in Egitto. Tutto finito? Ristabilito l’ordine? Assolutamente no, perché nel 46 e 45 a.C. Cesare è costretto a eliminare i pericolosi focolai di resistenza pompeiana in Africa e in Spagna, e, quando gli riesce, comprendendo che sono maturi i tempi perché governi un solo uomo, chiede e ottiene che il Senato gli conferisca la dittatura perpetua. Ma le Idi di Marzo si avvicinano e nel 44 a. C. i congiurati uccidono Cesare.
E il nostro giovane Vergilius?
Poco si sa di questo periodo: alcune fonti parlano di un suo soggiorno a Napoli per frequentare il “Giardino”, la scuola epicurea di Sirone, mentre altre accennano a un suo prudente ritiro nella sua proprietà di Andes. L’unico fatto certo è che si tiene lontano dalla politica, tattica assai proficua, visto l’andazzo dei tempi, con il formarsi di improvvise alleanze e l’altrettanto rapido rovesciamento delle stesse. E’ tuttavia più che probabile che abbia trascorso questo difficile periodo in parte nella dimora natia e in parte a Napoli, dove la frequenza della scuola epicurea parrebbe ormai assodata.
Che si sia trattato di anni in cui era più prudente defilarsi trova ulteriore elemento probatorio nel fatto che anche gli uccisori di Cesare hanno vita breve e devono soccombere alla reazione del II triumvirato, formato da Antonio, Lepido e Ottaviano. Inizia così un periodo di vendette, promosse più da Antonio che dagli altri due, e la prima vittima è un personaggio di primo piano, Marco Tullio Cicerone, strenuo difensore dell’idea repubblicana, ma anche grandissimo autore di orazioni politiche e di scritti filosofici.
Ed è proprio negli anni che vanno dal 42 al 39 a.C. che Vergilius scrive Le Bucoliche, la sua prima opera che gli conferirà da subito una grande fama.
“Bucoliche” deriva dal greco βουκολικὰ, cioè “Canti di bovari”, e sono una raccolta di componimenti formata da dieci ecloghe esametriche con argomenti e intonazioni pastorali; ogni componimento è costituito da un numero di versi fra 63 e 111, per un totale di 829 esametri. L’opera risente dell’influsso callimacheo, caratterizzata com’è dalla rigorosa perfezione formale, aspetto questo peraltro sempre presente in tutti i lavori successivi di Vergilius che, di fatto, crea un’impronta di purezza letteraria a cui presto tutti cercheranno di adeguarsi.
Sarebbe però riduttivo vedere le Bucoliche solo come un’opera stilisticamente perfetta, anche se lo è, ma occorre considerarne i contenuti, con quella continua ricerca dell’equilibrio interiore che traspare nei versi, un equilibrio che raggiunge celebrando la grandezza della natura attraverso la soavità del canto, una conchiglia, uno scrigno pregiato come unico e autentico rifugio dai drammi dell’esistenza.
Questo ritorno alla purezza della natura, all’incanto della vita semplice costituisce una novità assoluta per l’epoca e sembrerebbe confermare la presenza in Vergilius dell’anima celtica, un antico retaggio che resiste nonostante la massiccia presenza della romanità, non disgiunta tuttavia dall’influenza del greco-siculo Teocrito, inventore quasi tre secoli prima della poesia bucolica.
In lui c’è anche la sofferenza per quel distacco dalla terra natia per l’esproprio delle terre, distribuite ai veterani nel 42-41 a.C. appunto dal II Triumvirato.
Ed è proprio con questo evento drammatico che iniziano le Bucoliche e che sono l’unico tema della prima ecloga.
Tityrus/
Urbem quam dicum Romam, Meliboee, putavi / stultus ego huic nostrae similem, quo saepe solemus / pastore ovium teneros depellere fetus: / sic canibus catulos similes, sic matribus haedos / noram; sic parvis componere magna solebam. / Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes, / quantum lenta solent inter viburna cupressi.
Titiro/
V’è una città che chiamano Roma. Io stolto, o Melibeo, / la credetti simile alla nostra, dove noi pastori / spesso usiamo avviare la tenera prole del gregge: / così conoscevo i cuccioli simili ai cani, i capretti / alle madri; così solevo paragonare il piccolo al grande. / Ma questa città sollevò tanto il capo tra le altre, / quanto sogliono i cipressi tra i molli viburni.
Nella seconda ecloga invece Vergilius rivela la sua indole, perché vi viene cantato l’amore omosessuale (Formosum pastor Corydon ardebat Alexin, / delicias domini; nec quid sperare habebat.) ( Il pastore Coridone ardeva per il bellissimo Alessi, / delizia del suo padrone; ma non aveva nessuna speranza.). E’ un canto bellissimo, in cui la disperazione dell’innamorato respinto assume toni struggenti nel contrasto fra la vita opulenta che può offrire il padrone animato più dalla lussuria e l’incanto del contatto con la natura che sola può esaltare i sentimenti ( O crudelis Alexi, nihil mea carmina curas? / nil nostri miserere? Mori me denique coges. / Nunc etiam pecudes umbras er frigora captant, / nun virides etiam occultant spineta lacertos;) (O crudele Alessi, nulla curi il mio canto? / non hai compassione di me? Infine mi farai morire. / Ora persino i greggi prendono l’ombra e il fresco, / ora i roveti nascondono le verdi lucertole;)
La terza ecloga presenta la caratteristica di uno stornello, alternato, fra due contendenti.
E’ possibile ipotizzare una tenzone poetica, nella quale Menalca impersona Virgilio e la sua “nuova” poesia. Ci sono personaggi reali, quali Asinio Pollione, che si occupa anche lui di “nuova” poesia e Bavio e Mevio, rivali non solo di Virgilio, ma anche di Orazio.
Non riporto brani, perché l’ecloga ha una sua valenza per la notevole vivacità della contesa e quindi è necessario, per poterla apprezzare, leggerla per intero.
La quarta ecloga richiede i più ampi approfondimenti.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum / desinet ac toto surget gens aurea mundo, / casta, fave, Lucina: tuus iam regnat Apollo ( Tu, casta Lucina, proteggi il bambino nascituro / con cui cesserà la generazione del ferro e in tutto il mondo / sorgerà quella dell’oro: già regna il tuo Apollo.).
Ci si pone subito una domanda: chi è il nascituro?
Sì, perché non è un evento da poco, considerato che la sua venuta comporterà la fine del periodo buio, di violenza, e sorgerà l’età dell’oro. E’ certo una frase sibillina che si presta a molte interpretazioni, tutte egualmente probabili, ma sicuramente non certe.
C’è una sorta di ottimismo, una speranza quasi concreta in questi versi e quindi potrebbero essere intesi come augurio al console Asinio Pollione, a cui l’ecloga è dedicata, mediatore della pace di Brindisi fra Ottaviano e Antonio, che faceva sperare in una fine della guerra civile. Non mi convince tuttavia questa interpretazione, perché i versi sembrano trascendere il tempo in cui sono stati scritti, proiettando la speranza in un’epoca futura e di certo non vicinissima (Tu, casta Lucina – che poi sarebbe Diana – proteggi il bambino nascituro…); quindi è concreto il concetto di un avvento, con un nascituro figlio di una divinità casta. Qualcuno ha ipotizzato che si possa trattare del futuro figlio di Ottaviano e di Scribonia, ma nella realtà i due ebbero una femmina, la famigerata Giulia. E nemmeno ritengo probabile che ci si riferisca al figlio di Asinio Pollione, visto che non era deputato a succedere al padre. I Cristiani hanno pensato a Gesù, con la Madonna nella veste di Lucina, tanto che nel medioevo Vergilius fu ritenuto un profeta. Se questa sembra l’interpretazione più confacente (non dimentichiamo la figura di Vergilius nella Divina Commedia), però è la più fantastica e la meno aderente alla “mens” romanica dell’epoca, perché non dobbiamo dimenticare che il nostro poeta, per quanto grande, era uomo del suo tempo, né poteva appartenere all’ebraismo, con il concetto di unico Dio, e l’attesa del Messia. E allora quale può essere l’interpretazione più plausibile, senza avere la pretesa che sia l’unica possibile?
Da secoli girava per il mondo conosciuto, proveniente dalle religioni orientali per arrivare poi in Grecia, il mito del “divino fanciullo”, già presente nel mondo egizio, come testimoniato da reperti archeologici. Secondo questa interpretazione, Vergilius, attirato dall’atmosfera di leggenda, se ne sarebbe appropriato e avrebbe buttato lì l’idea di tributare in tal modo gli onori a tutti i prossimi nascituri di una riappacificata repubblica romana e quindi nati dalla speranza, sempre casta.
Devo dire però che sono perplesso e allora provo a fornire la mia personale interpretazione.
Vergilius si defilava, come si è detto, nei periodi di crisi, ma nulla toglie che sia possibile pensare che si facesse una certa idea dei protagonisti; era uomo che parlava poco, ma aveva intuito e con buone probabilità scommise su Ottaviano, ancora semplice tribuno. Ora, se per lui Ottaviano non poteva essere che la soluzione dei problemi di Roma, il nascituro era il suo avvento, cioè la sua presa di potere; per quanto ovvio poi, quest’idea rappresentava una speranza, legata anche alla possibilità di riavere le sue terre, ed ecco allora la madre Lucina, intesa non tanto come Diana, ma come la sacralità della speranza nell’oscurità della disperazione.
Certamente un’interpretazione univoca appare ben lungi da essere realizzata, ma nulla toglie all’importanza di questa quarta ecloga, generalmente definita cruciale nell’opera.
La quinta ecloga riprende un tema classico e caro a Teocrito, cioè quel Dafni cantato come il pastore di grande bellezza e perfetto in tutto. Questa specie di ode a tale personaggio da leggenda ha dato luogo a un paio di interpretazioni e c’è così chi vede in Dafni assunto in cielo Giulio Cesare divinizzato dopo la sua morte, mentre altri, più ragionevolmente a mio parere, vedono in lui il fratello di Vergilius prematuramente scomparso.
Menalcas/
Lenta salix quantum pallenti cedit olivae, / puniceis humilis quantum saliunca rosetis, / iudicio nostro tantum tibi cedit Amyntas. / Sed tu desine plura, puer; successimus antro. (Menalca / Quanto il flessibile salice cede al grigio olivo, / e l’umido nardo selvatico ai purpurei rosai, / a nostro giudizio, mtanto ti cede Aminta. / Ma basta parlare, ragazzo: siamo già nell’antro.)
La sesta ecloga è un inno pastorale, dedicato al governatore della Gallia Cisalpina Alfeno Varo che forse avrebbe preferito una poesia epica, ma al momento Vergilius, che mai indosserà armature, non si sente pronto - Nunc ego (namque super tibi erunt qui dicere laudes,/ Vare, tuas cupiant et tristia condere bella) / agrestem tenui meditabor harundine musam. – Ora io (poiché avrai abbondanza di quelli / che vorranno cantare le tue lodi e celebrare le funeste/ (battaglie, o Varo) studierò sull’esile flauto una canzone agreste.
E quasi a scusarsi per la momentanea incapacità di esprimere versi epici, provvede a dar fondo a tutte le sue risorse per arrivare a una composizione in cui l’aspetto pastorale raggiunga le più alte vette possibili (Tum canit Hesperidum miratam mala puellam, / tum Phaethontiadas musco circundar amarae / corticis, atque solo proceras erigit alnos.)
( Poi canta la fanciulla stupita dai pomi delle Esperidi, / e narra come le sorelle di Fetonte si racchiusero nel muschio / di un’amara corteccia e si eressero dal suolo dritti ontani.).
L’aspetto mitologico è il pretesto per trasporre l’immagine della sacralità della natura, sì da renderla una vera e propria divinità.
Nella settima ecloga l’influsso di Teocrito è preponderante:
Huc ipsi potum venier per prata iuvenci; / hic virides tenera praetexit arundine ripas/ Mincius, eque sacra resonant examina querce. (Qui verranno pei prati ad abbeverarsi i giovenchi / qui il Mincio costeggia di tenere canne le rive, / e dalla sacra quercia si sentono ronzare gli sciami.)
Sembra di vedere la scena, se ne avverte l’atmosfera, si ode perfino il ronzio delle api, una vera e propria parentesi di serenità in un quadro di più di duemila anni fa, una memoria che viene tramandata di generazione in generazione, un paradiso che piano piano l’uomo ha cancellato. Sono versi di notevole impatto emotivo che solo un grandissimo poeta poteva scrivere con poche semplici parole.
L’ottava ecloga ha come tema la gelosia pura ed è dedicata a Pollione, vincitore sui Dalmati. E’ una gelosia che tende all’incantesimo, con i due innamorati che si alternano, ma pur in presenza della consueta rievocazione e di immagini di scongiuri, non riesce a far sorgere una tenebrosa atmosfera di magia; il tutto rimane chiaro, reale, non so se per precisa scelta dell’autore, incline alla moderazione, oppure perché il tentativo non ha sortito effetto. In tutta franchezza è quella che mi ha meno soddisfatto con quella sua artificiosità che contrasta con l’apparente naturalezza delle altre.
Con la nona ecloga ritorna l’argomento della prima: l’esproprio forzato delle terre nel mantovano a vantaggio dei veterani di guerra. Vergilius, nonostante l’interessamento dell’amico Alfeno Varo, il governatore della Gallia Cisalpina, perde tutte le sue terre e la dimora natia, il che lo costringerà a cercare casa altrove, trovandola a Roma. Gli umili contadini e pastori sono privati di loro ogni avere e allora, in un tentativo di consolazione, cantano brani di carmi che, con molte probabilità, sono poesie non ultimate da Vergilius e che quindi fanno sì che questa ecloga presenti caratteristiche di frammentarietà e anche di non facile interpretazione, a differenza delle altre. Un altro motivo, però, potrebbe essere dato dal senso di frustrazione del poeta per l’aver perso, con la sua casa natia, anche il legame con il suo mondo, un senso di smarrimento che potrebbe giustificare l’incompiutezza e anche l’oscurità del senso.
Moeris / O lycida, vivi pervenimus, advena nostri / (quod numquam veriti sumus) ut possessor agelli / diceret: “ Haec mea sunt ; veteres migrate coloni”. / Nunc victi, tristes, quotiamo Fors omnia versat, / hos illi ( quod nec bene vertat) mittimus aedos. – Meri / O Licida, siamo arrivati a vivere perché uno straniero / (non lo avevo mai temuto) divenuto padrone del campicello / dicesse: “ Questo è mio, andatevene, vecchi coloni”. / E vinti, tristi, poiché tutto è in balia del caso / gli rechiamo (ma non gli porti fortuna) questi capretti.
In questa ecloga, peraltro, c’è il passo che ho già riportato prima in ordine all’esatta identificazione della località di Andes. Vi è da dire, tuttavia, che la descrizione appare in contrasto con quella della settima ecloga, dove il Mincio è il fiume su cui si affacciano prati verosimilmente pianeggianti e comunque senza l’ombra di colline. Non è improbabile quindi che Vergilius in tal caso sia ricorso un po’ alla fantasia dove forse i colli sono rappresentati dalla maggior altezza della pianura rispetto al fiume, verso il quale effettivamente ancor oggi scende.
Riporto, comunque, il brano per intero, perché è di straordinaria bellezza.
Lycidas / Certe equidem audieram, qua se subducere colles / incipiunt mollique iugum demittere clivo, / usque ad aquam, et veteres, iam fracta cacumina, fagos, / omnia carmini bus vestrum servasse Menalcam. – Lìcida / Pure, se non erro, avevo sentito che di dove i colli / cominciano a inclinarsi e il giogo a digradare in dolce clivo / fino all’acqua e ai vetusti faggi, ormai cime / spezzate, Menalca aveva tutto salvato con il canto.
Menalca è il nostro poeta e l’ultimo verso fa riferimento a un precedente tentativo di esproprio fallito per l’opera attiva di Vergilius sia nei confronti delle autorità locali, sia per l’intercessione dell’amico Alfeno Varo, governatore della Gallia Cisalpina.
La decima e ultima ecloga canta l’amore disperato dell’amico poeta Cornelio Gallo, invaghitosi della liberta Volumnia (qui Licòri), che passata dalle braccia di Marco Antonio a quelle di Bruto, e poi appunto a quelle di Gallo, lo ha abbandonato per unirsi a un militare che partecipava alla spedizione di Agrippa in Germania. Pare accertato che a questo componimento si sia ispirato il Tasso nell’Aminta.
Nunc insanus amori duri te Martis in armis / tela inter media atque adversos detinet hostes: / tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum!) / Alpinas, ah, dura, nives ex frigora Rheni / me sine sola vides. Ah, te frigora laedant! / ah, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas! – Ora un amore dissennato ti trattiene fra le armi / del duro Marte, fra i dardi, di fronte al nemico: / tu lontana dalla patria (ah potessi non crederlo!), / sola, senza di me, vedi le nevi delle Alpi / e i ghiacci del Reno. Ah, che il gelo non ti offenda, / e tagliente qual è non ferisca le tue tenere piante!
E’ un’invocazione disperata dell’amico Gallo, uno strazio di un cuore che non riesce a trovare pace, riconoscendo che tutto è finito. In questo è evidente la capacità di Vergilius di sondare l’animo umano, di cogliere tutti i sentimenti, soprattutto quello dell’amore che non risponde alla logica, così che una volubile Volumnia può far impazzire anche l’uomo più assennato.
Come ho accennato in precedenza, le Bucoliche ebbero subito un grande successo, tanto da essere recitate sulla scena. La fama e anche la novità di quest’opera interessarono a tal punto che ne furono scritte parodie o addirittura imitazioni.
Rapidamente, con Virgilio ancora in vita, furono adottate come libro di testo nelle scuole, congiuntamente alle successive Georgiche.
E anche molto più tardi influenzarono non poche opere, come l’Orfeo di Poliziano.
Il nostro Vergilius, ormai sulla trentina, come reagì a questa improvvisa e forse insperata fama?
Sono anni ancora cruciali, di disordini e di guerre, e lui, sempre restio a schierarsi, forse decide di giocare le sue carte. Diventato amico di Mecenate conosce Ottaviano e con ogni probabilità comincia a coltivare con lui quel rapporto di amicizia che gli consentirà alla nascita dell’impero di trovarsi al posto giusto e nel momento giusto.
Più tardi scriverà Le georgiche, forse la sua opera più affascinante, un’epica della vita dei campi, e infine il grande poema, L’Eneide, di cui non poté conoscere il grandioso successo, perché la morte lo colse improvvisamente a Brindisi il 21 settembre del 19 a. C. prima ancora che fosse resa pubblica.
Ma che cosa ci lasciano le Bucoliche, quale è il messaggio sempre attuale di Virgilio?
In periodi di drammi quotidiani, di scontri belluini, di perdita dei valori la realtà diventa insopportabile per un mite che è indotto a una scelta quasi obbligata. Se da un punto di vista materiale è prudente il defilarsi, molto più importante è cosa mettere in pratica per non morire dentro.
La soluzione proposta dal grande poeta latino è chiara ed è forse l’unica via percorribile: un dialogo con il proprio io volto alla continua scoperta di se stessi, un ritorno all’essenza delle cose e della vita che possiamo trovare anche con l’osservazione umile della natura che ci circonda.
Gli uomini passano e alla fine diventano polvere, ma il relazionare spiritualmente con il creato, ponendoci non al centro di esso, bensì quali ignoti partecipi della vita che non è solo quella della nostra specie, permette di arrivare gradualmente a un equilibrio interno che deriva dalla consapevolezza che siamo solo i punti di un disegno grandioso che non comprendiamo e che probabilmente mai capiremo.
La dolcezza della natura che ci circonda, la sua apparente semplicità ha la capacità, se la sappiamo cogliere e vedere, di permearci di una serenità mai conosciuta e il sapere che non siamo altro che microscopici atomi, anziché incuterci timore, ci mostra nuovi aspetti dell’esistenza, ci fa sognare un mondo senza più guerre, senza più prevaricazioni.
E’ una ricerca non semplice, ma quando mai i grandi traguardi vengono raggiunti con facilità?
Vergilius ci ha indicato la strada.
RENZO MONTAGNOLI