L' attenzione rapita verso il prodigioso racconto di Charles Dickens risale all’infanzia, quando leggendolo lo inscrissi subito, immediatamente, nella costellazione dei libri della mia anima, accanto all’appena citato capolavoro di Melville e all’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson. Da qui, da questa intuizione infantile, poi elaborata e confermata negli anni a venire, vorrei iniziare per tentare di definire l’unicità assoluta del prodigioso racconto-canto del sommo autore di lingua inglese, il geniale prestidigitatore del Circolo Pickwick.
Il pubblico che vedo accorrere a questa versione cinematografica dell’opera è diverso da quello che attende un nuovo film di Wim Wenders, o di Kenneth Branagh. Ne sento parlare con eccitazione in palestra, da parte di ventenni o trentenni che sanno tutto di Mourinho o delle scarpe Adidas, ma crollerebbero di fronte a un interrogatorio duro sull’identità di Amleto, o anche di Pinocchio.
Al cinema, nella sala gremita, posto straprenotato, ero circondato da coppiette di fidanzatini impacciati, dal lessico limitato, ma dall’incontestabile emozione: «Allora domani facciamo l’albero», la lapidaria conclusione di un giovane bergamasco mentre, sui titoli di coda, baciava pieno di allegria la ragazza.
È un fatto importante, un mito della letteratura entra in casa di tutti (almeno potenzialmente) senza fanfare, senza dichiararsi nella sua importanza. Un po’ come quando Roberto Benigni portò Dante in piazza, facendo le debite proporzioni. Dickens non è certo Dante (nessuno tranne Shakespeare è Dante, e forse anche un po’ di più). In compenso Benigni con Dante è più bravo del regista Robert Zemeckis, che realizza in A Christmas Carol un Canto di Natale meritevolmente aderente al testo, ma troppo sbilanciato negli effetti speciali, e in questo senso poco dickensiano. Poco dickensiano perché dickensiana è la dimensione straordinaria nel quotidiano, il miracolo nella natura. Film comunque consigliabile, magnificamente recitato, sciaguratamente concluso nella versione italiana con una stornellata di Andrea Bocelli, ma comunque da vedere.
Senza rinunciare però all’acquisto del dvd ora in vendita anche in edicola (11,90 euro) Il Bianco Natale di Topolino, che contiene il capolavoro cinematografico assoluto sull’opera, Canto di Natale di Topolino, realizzato nel 1983 dalla Disney, cartoni animati non digitali, magnifica fiaba natalizia, uno straordinario Paperone, uno dei vertici del cartone animato. Che è connaturato al soggetto: sono spiriti, fantasmi, quelli che guidano Scrooge alla rinascita, e il cartone animato è il genere cinematografico più spirituale, fantasmatico, facendo a meno anche della presenza corporea degli attori.
Parlavamo di Dante: quanto Dante nel racconto dell’avaro e misantropo Scrooge (tre viaggi, oltre le leggi di tempo e luogo, guidato da spiriti, come nella Commedia), e quanto Shakespeare (la verità dei fantasmi, la realtà folgorante e svelante del sogno)! Analogamente a Shakespeare, Dickens, ovunque ma qui con molta più evidenza, fonde la visione con la realtà quotidiana e mescola, come il maestro, il registro tragico a quello fiabesco e a quello comico.
Credo che lo stupore che ancora oggi genera, all’improvviso, questa storia incantevole, sia lo stesso che colpì me, bambino: il miracolo della notte di Natale, certo, ma anche l’accettazione dello spirito come entità non ingannevole ma anzi buona, la fiducia nell’immateriale, e la vertigine del viaggio nel tempo e nello spazio. Qui, per comprendere il segreto di questo mito, dobbiamo tornare alla letteratura di mare che ha nel capolavoro di Stevenson e in quello di Melville gli astri di riferimento, a cui si aggregano come in una costellazione, Robinson Crusoe, e l’opera di Joseph Conrad.
La letteratura di mare è essenzialmente metafisica: la metafora dell’equipaggio sulla barca, in balia delle onde, è la rappresentazione quintessenziale, elementare del destino dell’uomo che naviga sulle onde della vita, mosse dal destino, a cui il navigatore risponde guardando verso un lontano orizzonte, cercando una nuova riva. Oltre il mare c’è il mondo sconosciuto e l’anelito che ci spinge a imbarcarci, come dice Ismaele in Moby Dick, è l’archetipica attrazione verso l’acqua e il mistero della vita.
Ci si potrebbe domandare: che c’entra il ricco avaro e misantropo Ebeneezer Scrooge, nella sua Londra bancaria e usuraia, in pieno ottocento, con gli eroi che salpano per mare? Non solo c’entra, ma è il loro erede: l’età delle scoperte e della pirateria, e dei tesori sepolti, e delle baleniere, è finita. Il mondo è borghese, non si salpa se non per affari. Ma all’uomo borghese, prigioniero della sua City, una notte, si profila, in forma di sogno o spirito, l’occasione per un grande viaggio, una straordinaria avventura: nel proprio passato, prima, e poi nel proprio futuro, e quindi nel presente che sarà rigenerato. Scrooge potrebbe rifiutare, invece accetta l’invito. Salpa, infatti, con lo spirito, in cielo, il primo e l’ultimo di tutti i mari.
È lui il navigatore che può essere ognuno di noi. Non più il coraggioso esploratore, ma l’uomo che riceve una visita e l’accoglie, segue lo spirito, salpa, alla ricerca di se stesso e del senso ultimo della vita. Nell’età che ha visto l’uomo levarsi in volo con l’aeroplano e toccare in volo il suolo della Luna, Scrooge, il cittadino, l’avaro, l’inaffettivo che diverrà buono, è il nostro modello, il nostro Ulisse, il nostro navigatore, il nostro grande nocchiero.