Girolamo Brusoni
Degli amori tragici. Istoria esemplare
a cura di Emanuela Bufacchi
Salerno Editrice, 2009
Un romanzo seicentesco che parla delle vestali dell’antica Roma, per parlare, in realtà, delle suore dei conventi cattolici. Lo stratagemma fu pensato da Girolamo Brusoni (ca. 1614-1686), letterato e storico, originario del Polesine, caratterizzato da una vita irregolare, dopo gli studi a Ferrara e a Padova. A Venezia si avvicina agli ambienti libertini, entrando a far parte dell’Accademia degli Incogniti, e proprio alla luce della filosofia libertina del tempo può essere letto questo romanzo ‘a chiave’ e, insieme, ‘a tesi’.
La nuova edizione è curata con ottima competenza critica e apprezzabile scrupolo filologico da Emanuela Bufacchi, la quale scrive nella sua ricca introduzione: “Dalla speculare rappresentazione di vestali e monache si ricava la dissolutezza di quest’ultime, avvezze più di quelle agli stupri, ai veleni, agli aborti, alla fuga dai chiostri, insomma a quella molteplicità di colpe che rendono il convento un luogo infernale”. Degli amori tragici racconta infatti episodi di sesso, di violenza e di sangue di cui sono protagoniste le vestali della Roma pagana, con un certo gusto per il macabro e l’orrido di stampo senechiano (lo nota giustamente Emanuela Bufacchi).
L’allontanamento cronologico della vicenda in un’epoca distante diversi secoli consente all’autore di aggirare la censura. Stessa funzione assolve l’impostazione apparentemente moralistica della narrazione, che si configura retoricamente come un exemplum (Istoria esemplare è, del resto, il sottotitolo del libro). Tuttavia, alla morale esplicita inneggiante alla religione e alle sue prescrizioni di continenza e castità, si aggiunge (si sostituisce, alla fine di un’attenta lettura) una morale implicita, che pare però quella effettivamente condivisa dall’autore: “Se si lasciasse libera la volontà delle sfortunate donzelle, farebbe per avventura il Cielo che maggior numero di vestali si troverebbe, né tra loro nascerebbono di quegli accidenti che a giornata s’ascoltano recitarsi dal vulgo con nostra vergogna; ché quando di loro intenzione si dedicassero a Vesta, se non altro per non mostrare alle genti d’aver fatto cattiva elezione, si starebbono contente del loro stato e, quando loro incontrasse qualche mala soddisfazione, non potendo lamentarsi d’altri che di sé stesse, per non dir male di sé medesime si tacerebbono”.
Insomma, un’accusa molto dura e diretta al malcostume di certi padri che monacavano a forza le loro figliole (la Gertrude manzoniana – anche l’epoca è quella – docet). Inoltre c’è, da parte dell’autore, una difesa di quegli istinti naturali che trovano nell’appetito sessuale la loro normale estrinsecazione. A tale proposito dichiara uno dei personaggi, Porzia, a Ennio, per invitarlo a cedere alle sue voglie: “Non siamo noi forse donne come l’altre? Non abbiamo i medesimi sentimenti? Non siamo sottoposte alle medesime passioni? Ti pensi tu forse che quando veniamo rinchiuse quaddentro ci trasformiamo di donne in statue di marmo o pure che perdiamo quei membri che ci fanno conoscere per donne? Anzi che noi, dolcissimo Ennio, meglio dell’altre donne sappiamo amare e con più sensitivi diletti possiamo contentare i nostri amici; e, perché tu non pensi che le mie parole sieno ciance gittate al vento, puoi tu ora per te stesso farne la prova per mia felicità e per tua consolazione”.
La prima parte di questo discorso presenta parole molto simili a quelle pronunciate, in diverso contesto e in diversa situazione, dalla Ghismonda di Boccaccio, nella celebre novella della quarta giornata, a perorare i diritti della natura su un malinteso senso dell’onore.