di Giulia Pezzella*
La morte è un argomento difficile da affrontare e l’atteggiamento più diffuso è quello di evitarlo. Tanto è naturale la paura della morte quanto è comune non nominarla e, sicuramente, non parlarne. Un modo possibile è quello di iniziare utilizzando riferimenti letterari: sul tema della peste hanno scritto molti autori, con sfumature e intenzioni diverse, da Lucrezio a Camus. I riferimenti possono poi estendersi al mondo dell’arte e del cinema. La peste La peste del 1348 ha la sua testimonianza letteraria per eccellenza nel Decameron; sono, infatti, celeberrimi i passi della prima giornata nei quali si ricorda come a Firenze, in occasione del contagio, fosse venuta a mancare «la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane» e quindi fosse divenuto «a ciascun licito quanto a gradi gli era d’adoprare». Boccaccio può agevolmente essere usato per portare a riflettere sulle reazioni degli uomini di fronte al pericolo della morte imminente: «l’un fratello l’altro abbandonava, ed il zio il nipote, e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è quasi non credibile, le madri i figliuoli». La consapevolezza della morte, che colpisce all’improvviso e fa paura, è elemento spesso legato alla novellistica: presente nel Decameron come nei Canterbury Tales di Chaucher, fa da cornice anche a Le mille e una notte, dove, anzi, raccontare aiuta a salvarsi la vita. Il brano di Boccaccio, che è quasi sempre proposto alle prime classi del triennio, può essere presentato, con una debita introduzione, a qualunque classe. È ineludibile ricordare altri testi che possono essere utilizzati per riflettere sulla peste. Sono noti i passi del De rerum natura in cui Lucrezio propone spiegazioni scientifiche sulle epidemie (VI, 1090-1137) e racconta la peste di Atene (VI, 1138-1286). Del morbo, che «rese i campi luttuosi, / desolò le strade, svuotò la città di abitanti» (1139-1140), vengono descritti i sintomi che via via si manifestavano; Lucrezio passa poi a spiegare gli effetti dell’epidemia per poi ricordare come fossero crollati i punti di riferimento: nulla contavano la religione divina o i numi, «aveva più forza il dolore presente» (praesens dolor exsuperabat, 1277) ed era scomparso il primo segno del vivere civile, la pratica dei riti di sepoltura. Il brano può essere proposto in latino soltanto a una classe terminale di Liceo – o a una seconda classe del triennio – anche se, debitamente contestualizzato e in traduzione, può risultare di notevole interesse per tutti gli studenti. In traduzione possono anche essere lette le pagine di Tucidide che per Lucrezio furono di ispirazione (La guerra del Peloponneso, II, 47-54). Viene da sè anche il riferimento ai capitoli XXXI-XXXVI de I promessi sposi (che possono essere proposti – o richiamati, dal momento che le seconde classi del biennio leggono generalmente il romanzo – a qualunque classe). Le modalità di diffusione del contagio, che colpisce tutti gli strati sociali, vi sono minuziosamente descritte, ma l’attenzione degli allievi sarà senz’altro portata a come il sistema di relazioni umane e il carattere dei singoli siano messi alla prova dal flagello. Un altro testo manzoniano può essere analizzato per proporre una riflessione più specifica sulla paura della peste e sulle reazioni che tale paura suscita, ed è quella Storia della colonna infame che a partire dal 1840 fu posta come appendice a I promessi sposi. L’autore vi volle raccontare la storia del processo agli untori durante l’epidemia di peste che colpì Milano nel 1630. La vicenda, «un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini», era stata già utilizzata da Pietro Verri come argomento contro la tortura; nella Introduzione Manzoni esorta a non guardarla soltanto come frutto della «ignoranza dei tempi» e della «barbarie della giurisprudenza», consistenti la prima in errate credenze sulla diffusione della peste e la seconda nella pratica della tortura. Egli infatti sostiene che i magistrati che processarono i presunti untori, da tutti indicati come colpevoli, sapevano di condannare degli innocenti; a spingerli ad agire ingiustamente furono forse «la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti […] la rabbia resa spietata da una lunga paura […] il timor di mancare a un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se scoprivano degli innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle». Il morbo che per secoli ha mietuto vittime nel mondo è stato anche usato nel Novecento come allegoria. Destinato ai giovani lettori più maturi è La peste di Camus, il grande romanzo sull’etica laica. Per riflettere su un evento immaginario proposto come paradigmatico, può essere anche visionato l’omonimo film del regista argentino Luis Puenzo, liberamente tratto dal romanzo (1992). Non solo peste Da ultimo è opportuno ricordare che abbondano i testi che possono essere utilizzati per riflettere su altre malattie contagiose, diffusesi più di recente. Sono moltissimi i riferimenti letterari al “mal sottile”, la tubercolosi che tra Otto e Novecento, fino alla scoperta degli antibiotici, ha avuto un alto tasso di mortalità; lenta nel progredire lasciava comunque poche speranze di guarigione a chi ne era affetto. Se ne segnaleranno, senza pretese di esaustività, soltanto alcuni. Muore di tisi Mimì nella Bohème pucciniana, muore di tisi, nel 1916, Guido Gozzano, e della leggerezza malinconica con cui viveva la consapevolezza della propria fragilità non mancano segnali nelle sue liriche; scrive, per esempio, in “Speranza” (La via del rifugio): «Il gigantesco rovere abbattuto […] non so perché mi faccia tanta pena / quel moribondo che non vuol morire!». La realtà del sanatorio, luogo di speranza e di morte, fa da sfondo alla vicenda narrata da Thomas Mann ne La montagna incantata, come pure a quella de La diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino. Non vi sono al momento testi a carattere letterario che sembrino significativi per operare riflessioni sulle reazioni suscitate dalle prime notizie sulla sindrome da immunodeficienza acquisita, presentata, a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, come “nuova peste”; il film: Philadelphia di Jonathan Demme (1993), che ha al suo centro la vicenda di un omosessuale, malato di AIDS e oggetto di irrazionali pregiudizi, potrebbe essere un buon punto di partenza per riflettere su quanto le reazioni alla paura di un contagio ripropongano antichi modelli. Per concludere, sicuramente interessante potrebbe essere stimolare un approfondimento sul tema delle epidemie e della morte nella storia dell'arte. Il Trionfo della morte è stato un tema affrontato da pittori diversi per nazionalità e cultura dal XIV secolo in avanti. Inizialmente legato alla peste, successivamente diventa un argomento di riflessione più generale e profondo: i diversi trionfi della morte sono allegorie interessanti per capire epoche e culture. Se l’affresco palermitano omonimo rappresenta l’affermarsi della morte sul genere umano per mezzo di una pandemia, il dipinto di Pieter Bruegel mostra quanto la morte imparziale, colpendo tutti, dall’amante che canta l’ultima canzone al cavaliere che sguaina la spada. *Dottore di ricerca, collabora con la casa editrice Leonardo International. |