La procura di Milano imputa a Google il concorso nella violazione della privacy di un ragazzo down per aver ospitato un orrendo video caricato da una compagna di scuola? Il Tribunale di Roma gli impone di rimuovere il Grande Fratello da YouTube e non accoglierlo più senza il placet di Mediaset? Pericolo: i magistrati, proni al premier, vogliono assegnare a Google compiti censori innaturali, impossibili secondo alcuni e comunque onerosissimi. Google non paga le tasse in Italia sui ricavi italiani? Fa bene: l’online non ha patria, gli affari in Rete corrono senza frontiere. Come i capitali. Ma le altre imprese? Facciano anche loro arbitraggio fiscale. Chi critica Google è un nemico della Rete, dunque della Libertà e del Mercato. Questo dice il Popolo della Rete.
Il Popolo della Rete? Già, in quanto utente, un tal popolo non dovrebbe esistere così come non esiste il Popolo dell’Autostrada. Epperò c’è in quanto aderente a un’ideologia della Rete che si consolida nel culto dei suoi demiurghi, Google in primis. «Vogliamo migliorare il mondo, non ottenere il massimo profitto», dissero i fondatori di Google. All’Economist vennero i brividi. A noi no: ci pare di averla già sentita tante volte da santoni, politici, imprenditori. Amen. Ma il Popolo della Rete ci crede. Ricorda il Pew Charitable Trust: quando Google si quotò in Borsa nel 2004, il 62% degli utenti non coglieva la differenza tra i risultati gratuiti della ricerca e gli annunci pubblicitari mostrati a destra. Come la tv commerciale, Google non chiede nulla a chi naviga se non rendersi bersaglio della pubblicità: del link che porta al clic. Ma chiede qualcosa a chi lo voglia usare come veicolo pubblicitario. Come la tv e i giornali.
Il Popolo della Rete più informato sottolinea che AdWords, il programma pubblicitario di Google, è geniale. E ha ragione. Ma la pubblicità senza notizie e intrattenimento (i contenuti) non funziona. Nemmeno sul web. Giornali e tv i contenuti li costruiscono con il proprio lavoro o li comprano. E ne rispondono se violano la legge. L’algoritmo di Google ha fatto il miracolo di usare a scopo di lucro i prodotti del lavoro altrui, senza pagarli secondo un contratto e senza risponderne mai. Poiché i «derubati», e cioè gli editori, sono spesso un potere contestabile e spesso da contestare, l’innovazione tecnologica sembra aver ragione del diritto tra gli applausi dei nostalgici dell’esproprio proletario e dello sciopero del canone Rai. Ma la cosa ha senso?
La storia delle telecomunicazioni, madrine della Rete, dovrebbe far riflettere. Quando l’americana At&t divenne troppo grande, venne divisa in sette parti. L’infrastruttura, se dominante, è sottoposta a regolazione per evitare che il suo padrone spenga la competizione nei servizi. Ora, se Google è l’infrastruttura intelligente della Rete, l’Editore degli editori, si pone o non si pone un problema di regolazione?
Diciamola diversamente: quando si hanno in casa 25 miliardi di dollari e se ne guadagnano 6 l’anno, si hanno i mezzi per pagare le forniture (ordinanza di Roma), per evitare danni ai più deboli (processo di Milano) e per onorare i doveri fiscali (con l’attuale debito pubblico, il tempo dei regali è finito). (da corriere.it)
Massimo Mucchetti