Ieri
abbiamo letto in classe la fine della Vita Nova:
Appresso
questo
sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che
mi
fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che
io
potesse più degnamente trattare di lei.
E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sia veracemente.
Sì che,
se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita
duri per
alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto
d’alcuna. (Dante,
Vita Nova, XLIII)
Quando
Dante scrive queste parole, nel 1293, ha 28 anni. Vede qualcosa che
definisce
“mirabile” e ribadisce che lo scopo della sua vita è dire “Beatrice”
degnamente, come non è mai stato fatto con nessuna donna. Sa che questa
è la
cosa più importante della sua vita, ma sa anche di non essere
all’altezza. Per
questo dichiara “studio quanto posso” per “venire a ciò”, per riuscire
nell’impresa. Riuscirà a farlo solo 14 anni dopo, nel 1307, iniziando
la Commedia.
Gli ci vogliono 14 anni di “studio” (che in latino vuol dire amore,
passione,
desiderio), 14 anni di prove, di tentativi, di opere interrotte, di
esili, di
condanne a morte, fughe e dolori… per riuscire ad acquisire le
parole adatte a dire ciò che ha visto.
Le
parole arrivano 14 anni dopo e sono le parole che in altri 14 anni
(1307-1321)
costituiranno l’opera più grande mai scritta nella storia della parola
poetica.
14 anni per trovare le parole, 14 anni per scrivere. Tutto per “dire
veracemente” un nome: Beatrice. Dante trova le parole per l’amore che
lo ha
trovato.
Vorrei
la fede di Dante nelle parole, la sua tenacia nello studiare, quanto
può, per
raggiungere “a parole” l’Amore da cantare nel tempo e fuori dal tempo.
Le
parole si trovano, l’amore ti trova.
Ecco cosa ci faccio con le parole: dico
all’amore di venirmi a trovare.
di Alessandro D’Avenia