Studiare non è mai
affare semplice e immediato, ma con
l’arrivo della bella stagione può
diventare una vera e propria “sofferenza”. Insomma, chi o che cosa ci
motiva a
restare dentro casa o chiusi in biblioteca per leggere libri, per
sottolineare
frasi, per praticare esercizi, rinunciando invece a una piacevole
passeggiata
in centro o al mare, a una partitella con gli amici o a una serata a
tutta
birra? Insomma, perché vale la pena studiare?
Ciascuno
deve ovviamente rispondere da sé a
questa domanda, specialmente oggi che quella dello studio, grazie a
Dio, è una
possibilità per tutti. Una volta i pochi fortunati che potevano
studiare non
avevano certo questo problema: lo studio era un enorme privilegio.
Ancora io ho
avuto occasione di incontrare, da piccolo, alcune persone anziane che
rimpiangevano il fatto di non aver potuto studiare al loro tempo. Non
vi era
altra possibilità, allora, che mettersi subito al lavoro e contribuire
al
sostentamento della famiglia. Altri tempi, per fortuna. Oggi però il
rischio di
non cogliere più la grande grazia che è lo studio è davvero alto. Ben
venga
dunque la tentazione ‘primaverile’ che ci impone di riflettere sulle
ragioni
per cui vale la pena studiare.
Le
ragioni per cui val la pena studiare
Un’importante suggestione in tale direzione ci potrebbe venire da una
riflessione di Jean Guitton, un intellettuale francese di forte valore,
che
così scrive: «La cosa più bella nel
lavoro intellettuale […] è che il lavoro dello spirito è lo specchio e
il
preludio di ciò che vi sarà più tardi nella vita largamente prodigato. E
il bimbo che s’esercita e si dispera, colui che si incaglia dopo aver
tanto
cercato, quello che è incompreso da un maestro o che non lo comprende,
tutti imparano
la vita, ancor più che la grammatica o far di conto.
Ugualmente
ed anche di più, lo studente
solitario che non ha compiti fissi né soccorsi costanti e che è
costretto ad
imporsi una disciplina da se stesso. È raro veder pedagoghi insistere
su questa
somiglianza fra la scuola e l’esistenza, che è ciononostante secondo me
il
segreto principale di tutta la pedagogia: a che servirebbe studiare, se
ciò non
vi preparasse a quelle leggi piene di eccezioni, a quelle gioie
oscurate dai
dolori, a quegli imprevisti che domani appariranno come costellazioni
enigmatiche che devono servirci da guida? Spesso la
materia dei nostri studi è futile: a che può servire, ci si
chiede, fare un tema in latino, visto ch’io non parlerò mai in latino?
Ragionamento
che si potrebbe estendere a tutto nei
dettagli delle nostre occupazioni. L’unico modo per vincerlo è di
attribuire un
valore assoluto all’atto d’attenzione, alla perfezione formale o alla
pena d’un
giorno, voglio dire pensando che ogni atto d’attenzione, di
sopportazione, ogni
ricerca d’una perfezione minuta, fuori dal profitto e da qualsiasi
risultato,
trova la sua ricompensa in se stessa. Chi possiede l’anima di un poeta
mi
comprenderà».
Parole davvero limpide e chiare: lo
studio è per la vita, studiamo per imparare la vita. E
come non
riconoscere quanto sia importante un tale “imparare la vita”? Il
protagonista
dello splendido romanzo Bianca come il latte rossa come il sangue
di
Alessandro D’Avenia, Leo, a un certo punto della storia esclama: «Il
brutto
della vita è che non ci sono istruzioni!». Ed è proprio così: nella vita non ci sono istruzioni
prestabilite e fissate che valgano per tutti gli esseri umani,
cioè un
qualcosa di simile a ciò che è il complesso e composito apparato
istintuale
degli animali. Ognuno di noi deve creare la sua mappa del mondo, il suo
Nord e
il suo Sud, il suo Oriente e il suo Occidente. È qui – qui e non
altrove – che
trae ragione una vera passione per lo studio, un vero amore per lo
studio.
Tramite le pagine del libri, che ci riportano ciò che altri prima di
noi
fecero, che ci raccontano come lavora la natura, che ci restituiscono
il
continuo impegno di scoperta dei funzionamenti più elementari della
vita, che
mettono in moto le nostre onde cerebrali con i pensieri di grandi
uomini del
passato, lentamente acquistiamo familiarità con il mondo. Impariamo a
sapere il
mondo, a gustarne il sapore, la consistenza, la duttilità, la
resistenza, e
tutto questo ci prepara alla vita.
Da questo punto di vista, per affrontare la tentazione “primaverile” di
allentare la presa dello studio o di viverla con un eccesso di sforzo,
non
basta porsi di fronte alla domanda “perché studiare”, bisogna cogliere
che
l’interrogativo più importante è il seguente: “per chi
studiare”.
Si studia, in fondo, per se stessi, per allenare la propria
intelligenza a uno
sguardo più ampio della realtà, per saggiare la propria volontà di
andare a
fondo e al fondo delle questioni, per rendere il proprio cuore più
sensibile
alle frequenze meno appariscenti delle vicende umane, per trasformare
il nostro
piccolo spirito in un grande ospite della vita e del suo mistero, alla
cui
custodia e incremento siamo chiamati.
Ed è per questo che nel passato molti hanno lottato perché l’esperienza
dello
studio non restasse limitata a soli pochi fortunati e privilegiati,
dotati
delle condizioni economiche e familiari appropriate. Spesso non lo si
ricorda,
ma l’obbligo e quindi la possibilità di frequentare la scuola, oltre
l’istruzione primaria ed elementare, è un fatto piuttosto recente, cosa
di
appena quarant’anni fa. Una grande conquista per i più giovani tra di
noi.
Studiare dunque è sicuramente faticoso, impone rinunce e sacrifici,
veicola e
permette una disciplina dell’anima e del corpo, ma ha il
grande pregio di renderci sempre più familiari con il mistero della
vita e del mondo: di favorire quell’imparare la vita, da cui
dipende poi
una vita bella, una vita buona.
Armando
Matteo