«In passato la
letteratura era
un modello da seguire. Ai figli e agli alunni si diceva: "Se vuoi
imparare
a scrivere devi leggere molto". Oggi si deve precisare: "Se vuoi
imparare a scrivere devi leggere i classici"... e alcune firme della
carta
stampata. Gran parte della letteratura contemporanea, infatti, utilizza
la
lingua parlata, a livelli stilistici bassi. Un registro colloquiale
scadente,
incastonato di parolacce». A parlare è Gianluca Colella, giovane
dottore di
ricerca dell’Università di Macerata, dove insegna Linguistica. In
libreria in
questi giorni c’è un suo libro, edito da Carocci, con un titolo assai
esplicativo: Che cos’è la stilistica. Un testo che in forma di manuale
analizza
i temi dello stile nella narrativa italiana, nella poesia e nel teatro
fino
alla metà del ’900.
Sembra di capire,
insomma, che
questo momento storico non offra esempi di stile nemmeno in
letteratura. «Chi
vuole scrivere bene non deve certo ispirarsi agli scrittori di oggi,
che in
molti casi fanno della volgarità lingua di strada la loro cifra. E non
sono
certo io ad affermarlo per primo. Vale la pena di ricordare a questo
propositi
il saggio di Maurizio Dardano Stili provvisori e quello di Pietro
Trifone
Malalingua».
Fra ’800 e ’900
grandi autori
come Verga, Capuana e poi Deledda usarono lo stile del dialetto per
raccontare
storie di gente del popolo.
«La differenza è che
all’epoca
lo si faceva per far emergere un certo tipo di realtà sociale del tutto
trascurata dalla letteratura. Oggi, invece, si scrive in un certo modo
nel
tentativo di colpire il lettore. Un po’ come accade con la tv
spazzatura».
Quando è cominciata
questa
tendenza?
«È difficile
storicizzare
questi fenomeni di stile. Per semplificare si fa il nome di Pier
Vittorio
Tondelli quale spartiacque fra il prima e il dopo. Poi sono venuti i
cosiddetti
"Cannibali", dal nome di una delle più note riviste del ’77:
"Cannibale". Nei loro testi si registra un atteggiamento aggressivo
nei confronti della lingua italiana. Per identificare questi scrittori,
fra gli
addetti ai lavori si usa l’espressione: "i nipotini di Tondelli"».
Anche in Pasolini si
ha un uso
"violento" dello stile linguistico.
«In Pasolini, però,
si tendeva
a rendere l’elemento poetico. C’era questo tipo di ricerca, che oggi
invece non
c’è. In Gadda, poi, le distorsioni linguistiche erano quasi un gioco».
Per quale motivo si
è
registrato un simile decadimento della lingua utilizzata in letteratura?
«Ci sono delle mode.
C’è
l’imitazione di certa narrativa americana, quella della "bit
generation", tanto per intenderci. E ci sono alcuni scrittori che
pensano
di essere o sono più abili a sfruttare il momento. Più in generale è la
cultura
contemporanea che latita. Non c’è un riferimento culturale che sembri
stabile.
Ci sono idee buone solo per il presente... e la scrittura ne risente.
Da una
parte si ritiene che la lingua tradizionale abbia perduto la forza per
raccontare storie, ma non ci sono riferimenti per forgiarne una nuova».
Quali sono le
conseguenze
pratiche?
«Se la letteratura,
che viene
solitamente intesa come forma di comunicazione alta, propone una lingua
scadente, la conseguenza è che non esiste più un modello stilistico a
cui
ispirarsi. Così si scivola verso la volgarità gratuita. Lo si vede nei
mezzi di
comunicazione di massa. Anche se un certo giornalismo può essere
indicato come
modello per i giovani».
Cos’è, un paradosso?
«A differenza che in
televisione, esiste un giornalismo scritto, che in questa situazione di
latitanza letteraria costituisce un punto di riferimento linguistico.
Sto
parlando di grandi giornali, dei loro articoli di fondo, delle pagine
culturali. In questi contesti si può trovare una prosa giornalistica
curata e
attenta, di buona qualità. Alcuni divulgatori utilizzano una buona
scrittura.
Anche la lingua dei professori, degli studiosi a volte è buona, ma
sempre più
spesso appare incomprensibile, fumosa, non certo da indicare come
esempio a
degli studenti».
I suoi studenti che
tipo di
scrittura usano?
«Per prima cosa c’è
da dire
che si scrive poco e i giovani scrivono ancora meno. Agli studenti
universitari
viene chiesto raramente di fare delle tesine. E quando scrivono,
probabilmente
per assenza di modelli, si ispirano a una sorta di italiano
burocratico».
Per esempio?
«Se chiedo loro cosa
hanno fatto
nella giornata, non scrivono "sono andato", ma "mi sono
recato". Una forma inutilmente burocratica. Allo stesso modo si
registra
un uso massiccio del verbo "effettuare", al di fuori del suo
significato effettivo, invece del più semplice e polivalente "fare".
C’è chi usa "promulgare" invece di "diffondere". Si fa un
uso frequente di "ubicare" e via dicendo. Spesso, poi, mostrano di
avere scarsa padronanza con la lingua scritta anche nelle cose
elementari. Ti
mandano una e-mail ed esordiscono con "buongiorno" o
"buonasera"... Oppure chiudono con un "arrivederci". Non
sanno distinguere fra lingua scritta e lingua parlata».
E la poesia?
«Premettendo che ci
sono più
poeti che lettori di poesia, c’è da dire che dal punto di vista
stilistico gode
di migliore salute rispetto alla prosa. Su internet, per esempio, ci
sono siti
di poesia e il buon stile non manca».
Roberto I. Zanini – Avvenire
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