Nelle "Mille e una notte" come in Dumas e
Lovecraft, nel "Nome della rosa" come in Martin Amis, il fascino
irresistibile e la fortunata carriera letteraria di una particolare
arma letale: il libro che uccide.
MARIO BAUDINO (La
Stampa, 01/09/2011)
redazione@aetnanet.org
Nelle Mille e una notte c’è una storia che Sharazade dice provenire
dall’antica Persia, e racconta di un sapiente che «aveva letto libri
greci, persiani, turchi, arabi, bizantini, quelli siriaci e quelli
ebraici, e da tali libri aveva appreso la scienza». È il saggio Duban,
che riesce a guarire il re Yunan da una lebbra in apparenza incurabile,
conquistando così un posto di grande autorevolezza a corte. Col tempo
però, come accade nelle favole - e anche nella realtà -, Duban cade in
disgrazia, al punto che viene condannato a morte dall’ingrato sovrano.
Come Socrate accetta la sua sorte. Ma, a differenza di Socrate, si
vendica.
È questo il momento in cui entra in scena, in un periodo storico
piuttosto incerto, date la difficoltà di datare le Mille e una notte ,
un libro terribile, che già dal titolo annuncia la sua unicità: Il
segreto dei segreti. Ed è noto che arrivare al cuore dei segreti è
molto pericoloso. «Quando mi avrai tagliato la testa», spiega il
sapiente al sovrano, «se aprirai la sesta pagina del libro, leggerai la
terza riga a sinistra e mi rivolgerai la parola, la mia testa ti
parlerà e risponderà a quello che chiedi».
L’offerta è bizzarra. Siamo di fronte a un enigma, che il potente non
coglie né tanto meno comprende. Ordina senza indugio l’esecuzione,
dopodiché esegue le istruzioni del defunto. Il capo reciso di Duban,
come previsto, comincia a parlare: apri il libro, gli dice. Lui ci
prova, ma non ci riesce, perché le pagine sono appiccicate l’una
all’altra. Così si porta il dito alla bocca, lo inumidisce con la
saliva, e comincia a sfogliare. La testa parlante gli ingiunge ogni
volta di continuare, ma non ce ne sarebbe nemmeno bisogno perché il re
è prigioniero del gioco.
Non arriverà vivo alla fine. La carta è intrisa di veleno, e il
sovrano, continuando a inumidirsi il dito, ne assorbe abbastanza per
morire. Mentre si agita e si contorce nell’agonia, la testa mozza
canta: «A lungo nell’arbitrio essi han governato / ma il loro potere
non verrà ricordato». È questo il vero segreto dei segreti, così
evidente che nessuno, se non nei momenti cruciali della vita e della
morte, riesce a vedere. E il primo libro che uccide si staglia nella
letteratura come un solenne - e misterioso - simbolo di giustizia. Da
allora non è facile dire quante volte si sia manifestato nella
letteratura di tutto il mondo.
Come ha scoperto Umberto Eco, ma solo dopo avere scritto Il nome della
rosa , ha per esempio un ruolo molto importante, anzi cruciale, in un
romanzo di Alexandre Dumas, La regina Margot , che fa parte del ciclo
dedicato al Cinquecento francese. Narra degli intrighi che portarono
alla strage degli Ugonotti, la notte di San Bartolomeo, tra il 23 e il
24 agosto 1572, e di come Enrico di Navarra, capo del partito
protestante e futuro re di Francia, si salvò grazie a una serie di
circostante fortunose, a imprevedibili alleati e a una beffa della
sorte che tenne lontano da lui proprio il libro destinato a ucciderlo.
Al centro del magnifico feuilleton si stagliano le figure della perfida
Caterina de’ Medici, indomabile avvelenatrice, e dei suoi non
raccomandabili figli, in primo luogo il sovrano Carlo IX, malaticcio,
ambiguamente feroce, appassionato della caccia col falcone.
Caterina ha letto nel futuro, compiendo oscuri sacrifici di polli e
consultandone il fegato, che le sue creature non conserveranno il
trono, e sa che il pericolo è rappresentato proprio da Enrico di
Navarra. Così, visto che la notte di San Bartolomeo è stato risparmiato
da spade e archibugi, si dà da fare per eliminarlo con i mezzi a lei
più familiari. Dopo un primo tentativo fallito si rivolge allora a un
«libro preziosissimo» che trova per caso da un profumiere di fiducia,
cultore di pratiche magiche e fornitore di pozioni letali. È un
trattato di caccia, Del modo di allevare e di nutrire i terzuoli, i
falconi e i girifalchi perché siano coraggiosi, validi e sempre pronti
al volo, «scritto da un esperto lucchese per il famoso Castruccio
Castracani», senz’altro molto raro. «Ne esistono soltanto tre esemplari
al mondo», dice il profumiere alla regina.
Il titolo è innocente, ma le pagine, debitamente avvelenate, lo saranno
molto meno. E il risultato sarà una beffa atroce. La perfida Caterina
invia infatti il libro a Enrico di Navarra prima di una caccia, ma il
Re lo nota mentre il rivale è assente, se ne impossessa e comincia a
sfogliarlo febbrilmente, inumidendosi il dito perché le pagine «si sono
attaccate l’una all’altra». È, la sua, una inconsapevole bulimia di
morte: «Ne ho già lette cinquanta pagine, cioè le divoro», dice di lì a
poco al fratello, mentre si rimpinza di veleno. Le esigenze narrative
di Dumas sono molto diverse da quelle delle Mille e una notte , ma la
morale è sempre quella.
Il libro che uccide continua la sua strada nella letteratura scegliendo
percorsi del tutto autonomi, indifferente ai personaggi che incontra di
volta in volta. Si trova a proprio agio nell’immensa biblioteca del
Nome della rosa , e anzi l’abbazia inventata da Umberto Eco gli dà modo
di scatenarsi. Le sue pagine tossiche provocano una strage, ma questa
volta lo scopo è quello di custodire il segreto, non di rivelarlo.
Nessuno deve leggere, e non ci riuscirà nemmeno Guglielmo da
Baskerville, che pure sembra aver letto tutti i libri. Il veleno è
stato infiltrato nel volume aristotelico della Poetica dedicato al
riso, un libro perduto, che non è giunto fino a noi. Il suo ultimo
bagliore è nel rogo che avvolge biblioteca e abbazia, alla fine del
romanzo.
Il libro che uccide è una meravigliosa arma letale. Al suo fascino non
si resiste. E ha tanti volti: per esempio quello del Necronomicon
inventato da Lovecraft, oppure quello del romanzo dal beffardo e
autodistruttivo titolo Senza titolo , emblema di tutte le avanguardie e
di tutti i testi troppo cerebrali, che nessuno riesce a leggere senza
provare malori d’ogni genere dopo le prime pagine. Compare nell’
Informazione di Martin Amis, e ha una sua grandezza irresistibile e
beffarda, come tema portante nella vicenda dei due scrittori divisi dal
successo noncurante dell’uno, e dal fallimento invidioso dell’altro.
L’idea sembra proprio rimandare, non senza intenti parodistici, alla
leggenda tutta letteraria creata alla fine degli Anni Venti del secolo
scorso dallo scrittore americano padre del gotico fantastico, e col
tempo diventato oggetto di culto fra gli amanti del genere. Molti si
sono convinti che il Necronomicon (ovvero il libro dei nomi dei morti)
esista davvero, e qualcuno ha ovviamente provato a scriverlo e
pubblicarlo. Secondo Lovecraft l’autore sarebbe però un certo Abdul
Alhazred, poeta folle di Sana’a, capitale dello Yemen, vissuto
nell’VIII secolo. Lovecraft prese spunto da un’opera di Robert William
Chambers, scrittore newyorkese morto nel 1933, che si intitolava Il re
in giallo. È un’antologia di racconti brevi che gravitano intorno a un
libro terribile, in grado di condurre alla pazzia chi lo legge.
Messa in questi termini la faccenda sembra davvero spaventosa: ma se ci
allontaniamo un poco dalle fiamme infernali o dall’odore di arsenico,
dobbiamo ammettere che sono innumerevoli i libri in grado di portare i
lettori, se non alla pazzia e alla morte, a un notevole grado di
esasperazione. Come sa bene Martin Amis.
MARIO BAUDINO (La Stampa, 01/09/2011)
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