«Ce ne
ricorderemo, di questo pianeta». Quante volte le ho accarezzate con gli
occhi (queste parole dello scrittore francese ottocentesco Villiers de
l’Isle-Adam), sulla tomba di Leonardo Sciascia, a Racalmuto! Incise sul
bianco e nudo marmo, insieme al nome ed alle date di nascita e di
morte, così come Leonardo aveva fermamente voluto. «Ce ne ricorderemo,
di questo pianeta»: un’iscrizione che, dice Gesualdo Bufalino, «non
conta tanto come pezza d’appoggio d’una ipotesi di sopravvivenza, ma
ribadisce un sentimento di distacco ironico e dolente insieme. Questo
pianeta, cioè, con le sue abiezioni e dolcezze, quanto dovrà apparirci
estraneo, da una remota nuvola, e tuttavia oggetto d’una insopprimibile
volontà di memoria…».
Ecco, la volontà di memoria, il pensare, il voltarci indietro: è questo
l’ineludibile richiamo che ci resta, dopo un incontro con la pagina di
Leonardo, sia essa di un romanzo, di un saggio, di un articolo di
giornale. E da quella pagina sempre balzano la gioia, la felicità dello
scrivere: anche quando si tratti di cose terribili, se non angosciose.
«Non faccio nulla senza gioia», diceva Montaigne. La stessa gioia di
Luciano, di Stendhal, di Savinio. La stessa gioia di Leonardo Sciascia:
che è poi la gioia degli scrittori veri, dei cercatori di verità.
E mi viene in mente Cruciverba: uno dei libri più belli ed emblematici,
più carichi di destino, di quel grande scrittore dell’esistenza. Perché
in quel titolo c’è come rappreso e cristallizzato tutto l’universo
sciasciano: la vita, il suo complicatissimo cruciverba, del quale
Sciascia ha incessantemente scandito le intricate ascisse e ordinate.
Non tanto a trovarne un’improbabile soluzione, quanto ad illuminarne le
latenti ambiguità, le verità non visibili; e impegnato, piuttosto, a
dissolvere il caos del reale nel cosmo della letteratura, in quella
nitida e ordinata «sintassi della vita, del mondo, dell’uomo, di tutti
gli uomini».
Ben consapevole, manzonianamente, della complessa, spesso oscura natura
del vero, e insofferente delle banalizzazioni, dei dogmi, delle
pietrificazioni ideologiche. Chiedendo aiuto (senza restarne
prigioniero) alla ragione e al cuore, al sofisma e alla passione,
sempre sorretto dal dubbio, dal rovello. Contraddicendo e
contraddicendosi, tra le irreprimibili apprensioni del vivere.
Sciogliendo il rigore dell’intelligenza nella gioia della scrittura.
Temperando il sentimento tragico della vita con l’inesausta ricerca
della giustizia giusta, della verità. Di una verità plurale,
problematica, dialogica, contro ogni omologazione, contro le fabbriche
di consenso del potere. Una verità che Sciascia ha disseminato in quel
teatro della memoria sempre aperto che è tutta la sua opera: dove ogni
volta nuovi spettatori, come in un gioco di intelligenza attiva,
raccolgono le sue confidenze, le sue confessioni.
«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». E non poteva che essere la
memoria – il dovere di ricordare, la memoria individuale che tenendosi
in esercizio si salda alla memoria collettiva, alla Memoria – l’ultima
parola di un eretico come Leonardo Sciascia, che se ne andava proprio
oggi, 20 novembre, ventotto anni fa. Quella stessa memoria (vigile,
volontaria, sempre pronta a scoprire e riscoprire) che è stata la sua
ossessione più preziosa e proficua, oltre che la sua vecchia lanterna
sempre accesa tra menzogne ed inquietudini, ferite ed inganni, eppure
mai arresa ad illuminare da dentro la bellezza ed il mistero del
vivere. «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Ciao, Leonardo.
Giuseppe Giglio