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Vi racconto ...: Giacomo Leopardi, mio fratello

Redazione
Se ne stava tutto il giorno rintanato in quella fredda stanza. La biblioteca di papà. Piena zeppa di libri, quaderni, fogli, pergamene, con un odore d’antico, di chiuso, di solitudine. Stava seduto in quella scrivania da mattina a sera, estate e inverno, con il freddo, con il caldo, con la pioggia, con il sole, non c’era domenica né giorni festivi, tutti i santi giorni! E non c’era verso di fargli cambiare idea! A quali! E dire che quand’eravamo piccoli giocavamo spesso insieme, nel grande giardino di casa, con i nostri fratellini. Che bei tempi! Poi crescendo, Giacomo cambiò carattere, diventò cupo, triste, solitario. Non era interessato alle feste, alle serate di gala, ai ricevimenti, che pure il papà ogni tanto organizzava nel nostro palazzo. Non andava mai alle scampagnate, alle passeggiate con i suoi coetanei, alle feste di paese. Niente! Amava solo i suoi libri, immerso com’era in uno “studio matto e disperatissimo”.

E amava gli autori classici, conosceva perfettamente il greco, l’ebraico, il latino, e altre lingue moderne, leggeva Goethe, Byron, Alfieri, Foscolo, Parini. Di mattina, con la prima luce del sole, fino a notte fonda, restava sempre in biblioteca, sommerso dalle “sudate carte”, riempiva pagine e pagine, poi li correggeva, e poi li strappava e poi li buttava, e poi ne prendeva altri. Sempre, sempre così! Chissà che pensieri, che desideri, che sogni serbava in cuor suo!

A volte di soppiatto lo spiavo da una stanza accanto, e lo sentivo singhiozzare, mentre dalla finestra guardava Teresa, la figlia del cocchiere di papà, una ragazza delicata, dolce, “un fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù”, come mi confidò un giorno. Dopo un po’ d’anni però, Teresa morì, stroncata dalla tubercolosi, a soli vent’anni. Giacomo rimase profondamente colpito. Ricordo che ebbe una terribile crisi di pianto. Forse, insieme alla povera fanciulla, capì che moriva la speranza, la gioventù, il senso stesso della vita. Giacomo, dal quel giorno, diventò ancora più cupo, s’inabissò ancor di più tra le sue “sudate carte”.

Nelle notti di plenilunio rimaneva sveglio, e dalla loggia centrale della casa fissava la luna, sembrava quasi che le parlasse. Era attratto soprattutto dalle giornate di novembre, grigie, cariche di pioggia, che lasciavano presagire lampi e tempeste. Ammirava, all’orizzonte, Recanati, la nostra città, “il natio borgo selvaggio” come la chiamava lui; mi confidava però che desiderava tanto evadere, partire, viaggiare, conoscere il mondo. Dal nostro palazzo si scorgeva un paesaggio mozzafiato, specialmente all’alba, in estate, al risveglio, con il cielo terso e il sole che accendeva il giorno e la terra intorno. Giacomo faceva quattro passi in paese solo il sabato pomeriggio! Chissà mai perché!? Non aveva un gran rapporto con mamma, né con papà. Credo che non l’abbiamo mai capito fino in fondo.

“Giacomo!”, mi pare di risentire ancora la voce di mamma, una donna energica, rigorosa, molto religiosa, piena di passione e di carattere. La vera padrona di casa! Papà, invece, il “conte Monaldo”, pensava agli affari e alla politica. Ma anche lui aveva la passione per i libri e la lettura. Ma Giacomo, il loro primo figlio, era diverso, sembrava appartenere ad un altro mondo! Aveva una sensibilità, una delicatezza, una semplicità, quasi innaturali, soprattutto per la nostra epoca!

Ricordo una sera di maggio del 1819, dopo cena, mi prese in disparte, mi portò in biblioteca, mi fece cenno di chiudere la porta e di fare silenzio, io quasi impaurito mi sedetti sul divano, lui prese da un cassetto un foglio pieno zeppo di correzioni, socchiuse gli occhi per un attimo, preso un largo respiro, e poi con voce tremante, quasi sussurrando, mi guardo e iniziò a leggere:

«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quïete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare».

Restammo alcuni minuti in silenzio, mi sembrò un tempo interminabile. L’emozione era indescrivibile, avevamo le lacrime agli occhi. Ci sciogliemmo in un lunghissimo abbraccio. In quell’istante, toccammo l’infinito.

Angelo Battiato








Postato il Domenica, 02 giugno 2019 ore 09:00:00 CEST di Angelo Battiato
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