Sto pensando
a PINOCCHIO di Matteo Garrone...Ma come, tu, all'alba del 2020, col
mondo che brulica di eventi, vai a pensare a un film...Il fatto si è
che, al momento, la cronaca politica m'induce al riserbo, al
raccoglimento...per riprendere fiato e poi, forse, dire la mia... Ieri
pomeriggio (un comodo poco affollato spettacolo delle 17,15 in
quell'Ariston che m'è nel cuore sin dagli anni del CUC, Centro
Universitario Cinematografico, di Mughini, Recupero &Co;
dell'arrivo a Catania di Carlo Muscetta, poi mio maestro
d'Italianistica e di civili passioni)) ho riconsiderato il film...con
diversa concentrazione rispetto ai vocianti "Portali" dove, attorniato
dai preziosi nipotini, la mia attenzione si doveva, più o meno
equamente, distribuire tra i loro fanciulleschi diritti e l'offerta
propriamente estetica di un'opera d'autore.
E così Garrone, dopo le crudezze di "Dogman", mi ha ridonato la poesia,
quella del racconto e della fiaba, dell'onirico e del fantasioso (linea
saggiata con "Il racconto dei racconti", che pure mi parve più
estemporaneo, meno 'necessario': pronto a ricredermi, ritrovandolo...).
Il suo Pinocchio è di quelli che restano in virtù di linguaggio: di là
da un 'principio di piacere' (Freud mi perdoni l'abuso) che resta
invece sin troppo legato a ben difendibili questioni di gusto.
Finalmente, è burattino tra burattini (e più filologicamente sarebbe,
tra marionette vere e proprie, marionetta senza fili), tra uomini e
donne, tra animali e creature degl'interspazi, in un intreccio
policromo che fa della metamorfosi il "Grundthema", ovvero il motivo
strutturante dell'opera. Che è l'Italia povera e il suo sogno
malinconico di riscatto, delle antiche facezie toscane che non hanno
più campo e si moltiplicano e disperdono nella diffusa dialettofonia
nazionale. L'"umìle Italia" slargata a barocche dismisure, eppure
tenerissime, di Federico Fellini, ricondotta alla propria umiltà
(vicinanza alla terra, grazia dei derelitti, linguaggio povero) da Pier
Paolo Pasolini. Ecco perché l'episodio/chiave resta, per me, un Paese
dei Balocchi declassato a sogno dei poveri, dove non può esserci
fantasmagoria e deve invece trionfare, nella crudeltà dell'ingiustizia,
l'innocenza animale: l'asino di Apuleio, di Verga, di Bresson.
Ed è (anche) per questo che l'umilissimo Geppetto, maschera di
vecchiezza e di persistente candore, si affida per sempre a un Benigni
per sempre stralunato. Ed ecco perché offro, oggi, questo mio pensare
al mio paese, che "me duele" non meno di quanto la Spagna dolesse a un
Miguel de Unamuno...
Fernando Gioviale